Violetta arriva con la sua grazia, in un castello che mi appariva misterioso fin dall'infanzia e invece ora con eleganza apre le proprie porte. Arriva elegantissima, si fa corteggiare e si ammala di amore: i sintomi già si colgono dalla gioia timida, che quasi le impedisce di affacciarsi al balcone per udire pienamente la voce di Alfredo. Lo vorremmo fare noi per lei, tuttavia restiamo immobili e rapiti.
Violetta e Alfredo - ma anche il padre di lui, Giorgio - si fanno seguire nel salotto, nel cortile che proietta una casa di campagna nei dintorni di Parigi e infine nella stanza semibuia dove l'amore viene riunito e si dissolve nell'eternità. Vibra il pubblico... non si possono chiamare spettatori, coloro che vivono questa esperienza, perché tra le note irresistibili di Verdi e le voci avvincenti degli interpreti si diventa protagonisti, si sorride, ci si commuove. Fino al colpo di grazia, quando Violetta viene meno lì, davanti a te e ti assale il bisogno di allungare le braccia e cercare di rialzarla, per restituirla al cuore di Alfredo.
In tutta questa magia, se ne insinuano di altre. Il grande protagonista silenzioso, il castello di Massino Visconti che accoglie, scandisce e osserva ogni momento, in scena e fuori. Ma anche altre piccole magie, che fanno meno rumore eppure sono ugualmente importanti. Come la passione e la determinazione della "Voce all'opera" e di Gianmaria Aliverta che osa affrontare questa scommessa, far gustare la Traviata in un modo così insolito, e altre ancora. Come questo impegno di un gruppo di giovani e meno giovani, che credono nella cultura e seminano la loro dedizione in una zona incantata, da scoprire o riscoprire.
Tutti sono da applaudire, quelli che compaiono in scena, a partire dai tre artisti, Myung Yeoun Zoo, Giuseppe Veneziano e Federico Longhi. E la pianista Eleonora Barlassina, il regista Federico Vazzola, la mitica Fiorella che viene chiamata a fare la parte della domestica e assiste Violetta, lei che ha meravigliosa voce da soprano.
Quando si affaccia il tramonto, c'è un unico desiderio: ancora, ancora al cospetto del castello sbirciando la rocca di Angera e pronti a seguire un'altra favola.
Appunti di Viaggio di Marilena Lualdi Tra natura, dubbi e musica (Nature, music and doubts) (Questo sito si serve dei cookie per fornire servizi. Utilizzando questo sito acconsenti all'uso dei cookie)
lunedì 27 giugno 2011
mercoledì 1 giugno 2011
Bette Davis, tante e unica
Giornate travolgenti, roba che neanche un goccio di Talisker (sorry, I'm not a real man tonight, with ice please) riesce a trasformare in base per il sonno. Allora, come un avvertimento, sullo schermo si stampano due parole: Bette Davis. Un fremito e sai già che sarà una lunga notte, per cui speri almeno che ti attenda solo un film, mica una rassegna: altrimenti chi ti stacca più?
Auspicio realizzato, peccato però che la faccenda sia per cuori particolarmente robusti: arriva non Bette Davis, bensì due.
Lei dolce, troppo buona, provata da una vita di sacrifici e dalla subdola arte dell'altra. Anche l'altra è Bette Davis: egoista, avida e superficiale. Sono uguali sullo schermo, eppure gli sguardi sono opposti. Bette Davis eyes, la canzone ti rimbomba nelle orecchie.
Quegli occhi ti incatenano, e ti riportano a film lontani. In cui era innamorata, crudele, tenera, agguerrita. O a film più recenti, che però ormai hanno assunto il sapore della distanza temporale: vulnerabile, impietosa, spaventata, pericolosa. Agnello o tigre, non ha importanza.
Guarda, anche Christian sta seguendo "Chi giace nella mia bara". Sarei pronta per una rassegna ora, pescando fin dai primi passi, quando era seducente, se lo voleva. Altro che "fascino di Stanlio e Olio", come qualcuno aveva sentenziato all'inizio.
Sono gli occhi di Bette Davis che ci stanno seducendo, incastrando, togliendo il respiro. Commossi dall'agnello, allertati dal guaguaro, in fuga dietro a un cuscino per la tigre: siamo qui per loro. Sono gli occhi che non si vergognano di rivelare la loro età, e per questo sono così straordinari e avvincenti.
La plastica non è ancora arrivata e ci sentiamo proprio bene. Guarda, la Bette Davis assassina, che era così buona, sta accarezzando un cagnolone che odiava la Bette Davis ricca e svogliata: l'animale riconosce il cuore. Noi riconosciamo i suoi occhi, così capaci di cambiare, e di restare irrimediabilmente se stessi.
Quante Bette Davis, per una donna unica.
Auspicio realizzato, peccato però che la faccenda sia per cuori particolarmente robusti: arriva non Bette Davis, bensì due.
Lei dolce, troppo buona, provata da una vita di sacrifici e dalla subdola arte dell'altra. Anche l'altra è Bette Davis: egoista, avida e superficiale. Sono uguali sullo schermo, eppure gli sguardi sono opposti. Bette Davis eyes, la canzone ti rimbomba nelle orecchie.
Quegli occhi ti incatenano, e ti riportano a film lontani. In cui era innamorata, crudele, tenera, agguerrita. O a film più recenti, che però ormai hanno assunto il sapore della distanza temporale: vulnerabile, impietosa, spaventata, pericolosa. Agnello o tigre, non ha importanza.
Guarda, anche Christian sta seguendo "Chi giace nella mia bara". Sarei pronta per una rassegna ora, pescando fin dai primi passi, quando era seducente, se lo voleva. Altro che "fascino di Stanlio e Olio", come qualcuno aveva sentenziato all'inizio.
Sono gli occhi di Bette Davis che ci stanno seducendo, incastrando, togliendo il respiro. Commossi dall'agnello, allertati dal guaguaro, in fuga dietro a un cuscino per la tigre: siamo qui per loro. Sono gli occhi che non si vergognano di rivelare la loro età, e per questo sono così straordinari e avvincenti.
La plastica non è ancora arrivata e ci sentiamo proprio bene. Guarda, la Bette Davis assassina, che era così buona, sta accarezzando un cagnolone che odiava la Bette Davis ricca e svogliata: l'animale riconosce il cuore. Noi riconosciamo i suoi occhi, così capaci di cambiare, e di restare irrimediabilmente se stessi.
Quante Bette Davis, per una donna unica.