In queste innaturali giornate, dove corri senza crederci troppo, ti rimangono dentro immagini bizzarre.
Come un uomo dal vestito chiaro, che pedalava diligente. Sgualcito quanto basta, ho pensato: è un abito di lino. Innaturale in un giorno di fine febbraio, come il sole che non vuole ritrarsi alle richieste intempestive di inverno.
Allora, perché sembra così naturale un uomo che pedala con un abito chiaro di lino, sgualcito quanto basta, mentre troppo attorno si ferma. Rassicurante con le sue pieghe, simili a carezze, in un mondo rattoppato.
Appunti di Viaggio di Marilena Lualdi Tra natura, dubbi e musica (Nature, music and doubts) (Questo sito si serve dei cookie per fornire servizi. Utilizzando questo sito acconsenti all'uso dei cookie)
sabato 29 febbraio 2020
venerdì 28 febbraio 2020
Vita in Lombardia
La vita in Lombardia, Italia. Così piacevolmente normale che non vedi ragione di gridarla, solitamente.
Ma quando fuori ti guardano in modo distorto, hai la tentazione di una foto in più. Hai comprato il biglietto del Cenacolo, avida di cultura. Intanto divori i tagliolini. Farmaco prescritto, una bottiglia di Leonia, che ti porti appena fuori. Osservandola, diventi suddita delle bollicine, piccole e ostinate.
Il locale si riempie e senti che tutti hanno queste emozioni pronte a esplodere.
La vita in Lombardia, da gustare in silenzio. Questa sera, perché domani non appartiene a me, con o senza virus.
Ma quando fuori ti guardano in modo distorto, hai la tentazione di una foto in più. Hai comprato il biglietto del Cenacolo, avida di cultura. Intanto divori i tagliolini. Farmaco prescritto, una bottiglia di Leonia, che ti porti appena fuori. Osservandola, diventi suddita delle bollicine, piccole e ostinate.
Il locale si riempie e senti che tutti hanno queste emozioni pronte a esplodere.
La vita in Lombardia, da gustare in silenzio. Questa sera, perché domani non appartiene a me, con o senza virus.
giovedì 27 febbraio 2020
Secondo me, che virus
Annoto banalità deliziose di giornata. Ore 6 sveglia e colazione a tutta la famiglia. Giro con il cane. Partenza verso stabilimento per intervista.
Buongiorno, sono sempre in Lombardia, Italia e va sempre tutto bene. Oggi non mi faccio un selfie, solo per scongiurare di essere presa per un politico. Anche se è vero che non ho la mascherina.
Faccio la spesa. Il negoziante si lamenta che ha due persone soltanto in negozio. Be’, io sono già stufa dopo una manciata di istanti. In questo negozio si parla solo di Coronavirus. L’altra cliente sta demonizzando l’ordinanza sui bar e io purtroppo non riesco a tacere: le chiedo da quanto tempo non si faccia un apericena.
- mai fatto.
Allora la invito a provare, così magari vede la differenza tra atteggiamento (dei clienti) al bancone con il cibo per tutti e al tavolo.
Lei però non è sazia. Basta che il negoziante attacchi con un “secondo me” sull’origine del virus e la mia voglia di uscire divampa. Appena emesse le fake news di turbo, l’altra cliente rilancia.
Io esco, così non ci saranno più due persone, ma una. Che poi ho sbagliato, perché finalmente il virus si era palesato. Con quel “secondo me” che noi - noti non virologi - spargiamo.
Alla fine della giornata, capisco più che mai quello che ha detto la saggia donna veneta guarita (e mai stata make. Tutto tornerà come prima. Anche se non ce lo meritiamo.
Buongiorno, sono sempre in Lombardia, Italia e va sempre tutto bene. Oggi non mi faccio un selfie, solo per scongiurare di essere presa per un politico. Anche se è vero che non ho la mascherina.
Faccio la spesa. Il negoziante si lamenta che ha due persone soltanto in negozio. Be’, io sono già stufa dopo una manciata di istanti. In questo negozio si parla solo di Coronavirus. L’altra cliente sta demonizzando l’ordinanza sui bar e io purtroppo non riesco a tacere: le chiedo da quanto tempo non si faccia un apericena.
- mai fatto.
Allora la invito a provare, così magari vede la differenza tra atteggiamento (dei clienti) al bancone con il cibo per tutti e al tavolo.
Lei però non è sazia. Basta che il negoziante attacchi con un “secondo me” sull’origine del virus e la mia voglia di uscire divampa. Appena emesse le fake news di turbo, l’altra cliente rilancia.
Io esco, così non ci saranno più due persone, ma una. Che poi ho sbagliato, perché finalmente il virus si era palesato. Con quel “secondo me” che noi - noti non virologi - spargiamo.
Alla fine della giornata, capisco più che mai quello che ha detto la saggia donna veneta guarita (e mai stata make. Tutto tornerà come prima. Anche se non ce lo meritiamo.
mercoledì 26 febbraio 2020
I tempi della saggezza
L’agenda si è svuotata magicamente e le x si sono riversate altrove. In parte nei pensieri, che però bisogna coltivare per non lasciarli crescere disordinatamente.
Con lo Smart working, che non ho proprio iniziato in questi giorni, non è che mi salti fuori tutto questo tempo, intendiamoci. Mi sono presa piccole rivincite tipo intercettare qualche sprazzo di “Tempesta d’amore”, che prima guardavo più frequentemente perché avevo fame di montagne innevate e natura in libertà. Adesso ha un altro significato: mi serve per dirmi che ho finito di lavorare a un’ora abbastanza decente per far cenare la famiglia.
Non so come definire questi tempi. Della malattia per alcuni, non per molti ma sempre per troppi, ciascuna preziosa vita. I tempi di inciampo per moltissimi: quelli in cui avevi programmato tutto, e adesso ti fermi e devi seguire indicazioni altrui, che tu le capisca e condivida o no.
I tempi della saggezza, se lo vogliamo. Se ascoltiamo la parola saggia che non manca nel fiume di occasioni perdute di crescere. Se riprendiamo in mano quel libro che non potevamo finire con attenzione. Se allunghiamo la mano per una carezza, finalmente non frettolosa, a chi è accanto a noi.
Poi la saggezza è lieve e chissà se ci resterà addosso, attorno, quando il vento della routine si solleverà. Ma già anche qualche briciola ci farà ritrovare la strada.
Con lo Smart working, che non ho proprio iniziato in questi giorni, non è che mi salti fuori tutto questo tempo, intendiamoci. Mi sono presa piccole rivincite tipo intercettare qualche sprazzo di “Tempesta d’amore”, che prima guardavo più frequentemente perché avevo fame di montagne innevate e natura in libertà. Adesso ha un altro significato: mi serve per dirmi che ho finito di lavorare a un’ora abbastanza decente per far cenare la famiglia.
Non so come definire questi tempi. Della malattia per alcuni, non per molti ma sempre per troppi, ciascuna preziosa vita. I tempi di inciampo per moltissimi: quelli in cui avevi programmato tutto, e adesso ti fermi e devi seguire indicazioni altrui, che tu le capisca e condivida o no.
I tempi della saggezza, se lo vogliamo. Se ascoltiamo la parola saggia che non manca nel fiume di occasioni perdute di crescere. Se riprendiamo in mano quel libro che non potevamo finire con attenzione. Se allunghiamo la mano per una carezza, finalmente non frettolosa, a chi è accanto a noi.
Poi la saggezza è lieve e chissà se ci resterà addosso, attorno, quando il vento della routine si solleverà. Ma già anche qualche briciola ci farà ritrovare la strada.
martedì 25 febbraio 2020
L’omino dei giornali
È alto più di un metro e ottanta, ripiegato sul suo motorino, ma per me è l’omino dei giornali. Un minuscolo e inossidabile riferimento in questi giorni più che mai, nella sua consegna a domicilio. Ha sfidato la rivoluzione digitale, i cambiamenti di abitudini, forse persino le ere geologiche. Tutte le mattine passa dai suoi clienti alla stessa, scrupolosa ora, con l’acquazzone o l’afa.
A volte lo vedo sfrecciare alle 6.30 in punti dove ripasserà alle 8, ma so che esiste una spiegazione. La bussola del suo percorso è inossidabile.
Se accade qualcosa (ogni tre anni o giù di lì, credo) per cui sfora di 5 minuti, il cliente dall’attesa passa all’apprensione e telefona nel negozio davanti al quale solitamente passa in quel lasso di tempo: avete visto l’omino dei giornali?
Lui mi ricorda un po’ le campane del mio paese, che offrivano rintocchi anche notturni. Qualcuno protestò e le zittì. Io trascorsi giorni disperati a uscire in ritardo, perché nonostante orologi e sveglie in casa il mio io occulto era strutturato su quel suono ricorrente e abituale.
Come quello del passaggio dell’omino dei giornali, ripiegato sul motorino, con la sua libertà impastata di sacrifici, sorrisi, vento sul volto.
Responsabilmente fiduciosi
Solo questa mattina i miei pensieri passeggiavano per Milano e cercavano fiducia. Oggi due rinvii che così non posso chiamare.
Sono due conferme. Che verremo fuori da questo casino, da questa storia innaturale che ha stordito Milano e tutti noi.
Il Salone del Mobile, si farà. A giugno invece che aprile ma si farà, e domani ne parleremo su La Provincia. Io sento già la frenesia di quel momento in cui il pianeta intero si sta riversando dentro e tutto ha un senso fatto di arte, coraggio e lucidità.
E il congresso di Identità Golose: che esperienza travolgente. Quest’anno si ispirava alla responsabilità, che non va tanto di moda perché attraversa il tempo. A luglio, ma si farà.
Responsabilmente fiduciosi, ci incamminiamo.
Sono due conferme. Che verremo fuori da questo casino, da questa storia innaturale che ha stordito Milano e tutti noi.
Il Salone del Mobile, si farà. A giugno invece che aprile ma si farà, e domani ne parleremo su La Provincia. Io sento già la frenesia di quel momento in cui il pianeta intero si sta riversando dentro e tutto ha un senso fatto di arte, coraggio e lucidità.
E il congresso di Identità Golose: che esperienza travolgente. Quest’anno si ispirava alla responsabilità, che non va tanto di moda perché attraversa il tempo. A luglio, ma si farà.
Responsabilmente fiduciosi, ci incamminiamo.
lunedì 24 febbraio 2020
Milano piano piano
Quando ero studentessa e pendolare, era il mio assaggio di vita, la sensazione frizzante fuori dalla provincia che ti addestra anche troppo. Ti ho vista cambiare e/o sono mutata io.
Un giorno, mi sono risvegliata ed eri così complessamente bella da dirmi tutto in un lampo. Ricordo un mattino di pochissimi anni fa, quando venni da te per una decisione difficile e stranamente intelligente (come te, mi piace prendermi in giro). Ero vicino alla Centrale e poi dovevo recarmi vicino al Duomo, in uno dei punti più antichi della città, coccolato sotto il suolo. Avevo tempo, guarda un po’, e scelsi di compiere quella strada a piedi.
Ti vedevo così cambiare di istante in istante, eppure piano piano: modernissima, con tracce di lavoro ancora in corso o in piena esplosione, e poi addolcita dalla storia, anche i passi guidavi a un ritmo più lento.
Oggi penso che siamo a una prova bastarda, contenere un virus e sconfiggerlo, contando i minuti per tornare a una vita normale. Non la merita nessuna terra, figurati tu. Hai accolto il mondo, adesso il mondo ti, ci osserva. Sei triste, forse arrabbiata. Vorresti dire, come me: al diavolo, chi mi chiude le porte in faccia adesso non mi vedrà più domani, quando mi rialzerò. Ma sai già che non sarà così.
Perché Milano si rialza e tutti attorno con lei. In fretta che è sempre troppo piano per noi, che abbiamo fame di un nuovo futuro da accostare alla storia.
Milano piano piano perdona, si è già dimenticata e guarda avanti.
Milano piano piano da attraversare.
Milano deserta, Milano che trabocca di volti: è la stessa Milano, la stessa Lombardia, lo stesso Paese e lo stesso mondo. Piano piano, perché per noi è sempre troppo piano, ripartiamo.
Io mi fido
Come state, mi hanno chiesto oggi. Ho riposto la stanchezza e le paure, riavvolgendo il nastro di tanti volti incontrati. Molti a distanza, alcuni no, poi ogni calcolo fisico si scioglieva, perché mi sento vicina a tutti loro. A tutti noi.
Sì, lo so: sui social scorrono schiaffi e prescrizioni innaturali. Io sono troppo stanca e soprattutto troppo ignorante per ribaltare chi decide cosa sia pericoloso e cosa possa invece contenere il coronavirus.
Io mi fido. Perché non so, perché credo che ciascuno abbia la propria competenza e va rispettata. Perché un’idea migliore non mi viene. Perché una vaga differenza tra una cena e certi apericena la capisco pure io.
Perché dobbiamo venirne fuori e lo faremo.
Perché quando ho anche solo un raffreddore, so da quali amici e parenti non devo andare per tutelarli. Ma se non mi accorgo di essere malata, mi consegno all’incoscienza.
E chi vuole, può continuare a scannarsi, ma io preferisco camminare in silenzio e scorgere la dignità della mia gente.
Ci possono escludere in modo sommario o ferire in altri modi, ma non possono toglierci
Questo: che siamo un popolo pazzesco, preciso e pasticcione.
E allora io mi fido, ci rido su e mi si è pure sciolto il trucco. Mi fido e vado avanti, come la mia gente.
Sì, lo so: sui social scorrono schiaffi e prescrizioni innaturali. Io sono troppo stanca e soprattutto troppo ignorante per ribaltare chi decide cosa sia pericoloso e cosa possa invece contenere il coronavirus.
Io mi fido. Perché non so, perché credo che ciascuno abbia la propria competenza e va rispettata. Perché un’idea migliore non mi viene. Perché una vaga differenza tra una cena e certi apericena la capisco pure io.
Perché dobbiamo venirne fuori e lo faremo.
Perché quando ho anche solo un raffreddore, so da quali amici e parenti non devo andare per tutelarli. Ma se non mi accorgo di essere malata, mi consegno all’incoscienza.
E chi vuole, può continuare a scannarsi, ma io preferisco camminare in silenzio e scorgere la dignità della mia gente.
Ci possono escludere in modo sommario o ferire in altri modi, ma non possono toglierci
Questo: che siamo un popolo pazzesco, preciso e pasticcione.
E allora io mi fido, ci rido su e mi si è pure sciolto il trucco. Mi fido e vado avanti, come la mia gente.
domenica 23 febbraio 2020
Seguendo il suo corso
Lombardia, sempre in movimento, di corsa, febbrile, feroce, poche volte festosa. Dove sei. Lombardia. Italia. Mondo.
Ti, vi trovo qui, al cospetto del mio fiume, l’Olona che sbircia tra i boschi, i prati, i capannoni vivi e quelli addormentati. Pochi passaggi umani, le altre creature che sussurrano.
Che ne sa il fiume dell’emergenza coronavirus. Segue il suo corso, per natura e non abitudine, e offre lampi di pace a chi li cerca.
Così distante da noi, così simile.
Ciascuno di noi, seguendo il suo corso, si può allontanare dal rumore e dalle paure. E offrire lampi di pace a chi li cerca.
sabato 22 febbraio 2020
Non c'è più fretta
La corsa è finita presto, oppure non ricordo quando sia cominciata. I piedi dell'anima hanno smesso di dolere da un pezzo, anestetizzati dall'abitudine.
A metà settimana avevo capito che dovevo fermarmi e non ho ascoltato. Così, mi ha fermato il mio corpo direttamente. Penso alle poche volte in cui l'ha fatto: doveva essere proprio esasperato. Adesso mi ha opposto un no gentile, e poi mi ha sussurrato: non c'è fretta.
Solo che quando mi sono guardata attorno, dove tutti corrono quanto me, ho scoperto che tutto stava rallentando. E non certo ad aspettarmi. Dolori, allarmi, pandemia, forse no, parole a vanvera, parole che devo fermare, nelle mie orecchie e nei miei occhi.
Ho scoperto, che non c'è più fretta. Che possiamo rimandare. Che possiamo sederci ad aspettare. Che non c'è dietro qualcuno che ci incalza, se non per qualche bizzarra fissazione inculcata da una subdola scuola di pensiero.
Non c'è più fretta.
Tomorrow is another day
And you won't have to hide away
(Run Boy Run)
Non c'è più fretta di nascondersi, di dover fare tutto proprio adesso. C'è forse solo un pizzico di fretta, di amarsi ancora un po', di assaggiare la mostarda che ancora ti attendeva, di aprire una bottiglia che ti riportasse avanti, con calma.
Pochi giorni fa, un intervistato mi ha detto no perché tossivo: «Mi telefoni, piuttosto». Avevo fatto fatica per essere lì, avevo corso, ma ho acconsentito alla sua richiesta.
Solo più tardi ho pensato: questo è un po' come sentirsi esclusi. È come capire che adesso tocca a te bussare e non essere certa di vedere aperto, solo per della tosse, della febbre.
E capisci quanto è carogna e saggia la febbre, anche la più innocente.
Ti fissa negli occhi e ti dice: accomodati, non c'è fretta.
E ha ragione lei.
A metà settimana avevo capito che dovevo fermarmi e non ho ascoltato. Così, mi ha fermato il mio corpo direttamente. Penso alle poche volte in cui l'ha fatto: doveva essere proprio esasperato. Adesso mi ha opposto un no gentile, e poi mi ha sussurrato: non c'è fretta.
Solo che quando mi sono guardata attorno, dove tutti corrono quanto me, ho scoperto che tutto stava rallentando. E non certo ad aspettarmi. Dolori, allarmi, pandemia, forse no, parole a vanvera, parole che devo fermare, nelle mie orecchie e nei miei occhi.
Ho scoperto, che non c'è più fretta. Che possiamo rimandare. Che possiamo sederci ad aspettare. Che non c'è dietro qualcuno che ci incalza, se non per qualche bizzarra fissazione inculcata da una subdola scuola di pensiero.
Non c'è più fretta.
Tomorrow is another day
And you won't have to hide away
(Run Boy Run)
Non c'è più fretta di nascondersi, di dover fare tutto proprio adesso. C'è forse solo un pizzico di fretta, di amarsi ancora un po', di assaggiare la mostarda che ancora ti attendeva, di aprire una bottiglia che ti riportasse avanti, con calma.
Pochi giorni fa, un intervistato mi ha detto no perché tossivo: «Mi telefoni, piuttosto». Avevo fatto fatica per essere lì, avevo corso, ma ho acconsentito alla sua richiesta.
Solo più tardi ho pensato: questo è un po' come sentirsi esclusi. È come capire che adesso tocca a te bussare e non essere certa di vedere aperto, solo per della tosse, della febbre.
E capisci quanto è carogna e saggia la febbre, anche la più innocente.
Ti fissa negli occhi e ti dice: accomodati, non c'è fretta.
E ha ragione lei.
Trasparenti come l’eleganza
Trasparenza e profondità convivono con naturalezza nelle persone. E quando queste scrivono, imprimono nero su bianco i propri pensieri con un gesto che profuma di liberazione.
Maria Giovanna Massironi aveva lasciato indizi preziosi, passando da quello strumento che amiamo più spesso usare male e criticare: i social. Eppure proprio lì si era già potuta gustare la sua ricerca, poetica e realista (perché non c'è contraddizione forzata). Poi qualcosa è accaduto: quei versi sono stati presi con la delicatezza che meritavano e posati in un libro elegante.
Rifletto su questo termine, che a volte sembra porre distanza; invece, costruisce un ponte luminoso tra le persone che vogliono ascoltare e capire e invita a cercare sempre di più il bello che è traccia del vero. "Cronache dalla Terra di Nessuno" è diventato proprio questo, grazie alla finezza della casa editrice Albaccara e al tocco grafico impeccabile di Chiara Occhipinti: un luogo dove camminare in punta di piedi, fermarsi, respirare, commuoversi, sorridere.
Non ci si stupisce di come Maria Giovanna fosse «una bambina con pensieri enormi» che non le stavano tutti in testa. Così si vivono con lei nel libro tutte le sessantaquattro notti e i sessantacinque giorni, dove il confine tra il sonno (quando arriva, e spesso senza riposo) e il risveglio si fonde.
Molte di noi erano «ragazze piene di sogni nei nostri geometrici abiti di piqué dalle tinte pastello». Educate alle regole, dal vestiario a ogni gesto quotidiano. Ribellarsi? Liberazione è una parola più potente di ribellione. Alla fine, ti puoi commuovere pensando ai minuziosi e minuscoli atti delle formiche, che le cicale neanche intuiscono. Vero, mentre la natura scombina e sistema tutto, può balenare che «tutto sembra bello, tranne gli umani».
Eppure, accarezzando la possibilità di dimenticare (che si ribella e scappa via, consegnandoti alle lusinghe della memoria) si arriva al termine di un viaggio con una strana consapevolezza. Che la babele riaffiora, fa parte di noi, ma ha anch'essa colori. Che la vita ci aspetta, ci travolge, ci confonde, ci abbraccia. O forse siamo noi, ancora una volta, a poterla abbracciare.
Grazie di questi pensieri trasparenti e coraggiosi. Come l’eleganza.
Maria Giovanna Massironi aveva lasciato indizi preziosi, passando da quello strumento che amiamo più spesso usare male e criticare: i social. Eppure proprio lì si era già potuta gustare la sua ricerca, poetica e realista (perché non c'è contraddizione forzata). Poi qualcosa è accaduto: quei versi sono stati presi con la delicatezza che meritavano e posati in un libro elegante.
Rifletto su questo termine, che a volte sembra porre distanza; invece, costruisce un ponte luminoso tra le persone che vogliono ascoltare e capire e invita a cercare sempre di più il bello che è traccia del vero. "Cronache dalla Terra di Nessuno" è diventato proprio questo, grazie alla finezza della casa editrice Albaccara e al tocco grafico impeccabile di Chiara Occhipinti: un luogo dove camminare in punta di piedi, fermarsi, respirare, commuoversi, sorridere.
Non ci si stupisce di come Maria Giovanna fosse «una bambina con pensieri enormi» che non le stavano tutti in testa. Così si vivono con lei nel libro tutte le sessantaquattro notti e i sessantacinque giorni, dove il confine tra il sonno (quando arriva, e spesso senza riposo) e il risveglio si fonde.
Molte di noi erano «ragazze piene di sogni nei nostri geometrici abiti di piqué dalle tinte pastello». Educate alle regole, dal vestiario a ogni gesto quotidiano. Ribellarsi? Liberazione è una parola più potente di ribellione. Alla fine, ti puoi commuovere pensando ai minuziosi e minuscoli atti delle formiche, che le cicale neanche intuiscono. Vero, mentre la natura scombina e sistema tutto, può balenare che «tutto sembra bello, tranne gli umani».
Eppure, accarezzando la possibilità di dimenticare (che si ribella e scappa via, consegnandoti alle lusinghe della memoria) si arriva al termine di un viaggio con una strana consapevolezza. Che la babele riaffiora, fa parte di noi, ma ha anch'essa colori. Che la vita ci aspetta, ci travolge, ci confonde, ci abbraccia. O forse siamo noi, ancora una volta, a poterla abbracciare.
Grazie di questi pensieri trasparenti e coraggiosi. Come l’eleganza.
mercoledì 19 febbraio 2020
Il mondo a braccia aperte
Con naturalezza, mi trovo a crederci ancora. Il mondo a braccia aperte lì ad aspettarti, a patto che tu lasci cadere la paura, una veste scomoda mentre dovresti indossare quella che senti tua.
Stefano Ferri in televisione è una pagina di gentilezza, che vorresti trattenere un altro secondo, un minuto, un'ora ancora. Ascolto l'intervista di Daria Bignardi su La 9 e ripenso alla prima volta in cui l'ho incontrato a Milano. Lui, scrittore di meritato successo, a parlare del mio piccolo "Chi ha bisogno di Willy", a cui ha portato benedizioni, non fortuna.
Non mi pare strano che quello fosse il libro in cui avevo abbandonato proprio la paura, quella di espormi, di far uscire il dolore, la rabbia e di rompere il guscio.
In una giornata come quella di oggi, penso al freddo che mi ha scavato dentro. Ma bastano pochi istanti ad ascoltare Stefano e mi ricordo un whatsapp, ricevuto da una donna. Non una mia amica, ci conosciamo per lavoro soprattutto, ma ieri mi ha vista scossa dalla febbre e forse non solo.
E basta un: come stai oggi?
domenica 16 febbraio 2020
Il sole sciolto sul mondo
La partita, il freddo che non è abbastanza ed è troppo, la delusione che non ti scava dentro perché devi correre a casa a scaldarti il cuore.
Ma si intromette sulla tua strada questo sole che sembra sciogliersi sul mondo, si posa in fondo al viale e a te viene voglia di inseguirlo. Di afferrarlo da qualche parte e restarlo a guardare.
Un desiderio così infantile che vaghi per la città, svolti, provi ad afferrare un ultimo frammento di quello spettacolo.
Finché il sole è sciolto sul mondo e il buio ti accompagna a casa. Ma ti resta sul volto il sorriso di chi ha creduto di poter inseguire il sole.
sabato 15 febbraio 2020
Perché scrivono d’amore
Ho solcato per settimane un mare di parole d’amore, senza intestardirmi su una destinazione. Sì, il porto sicuro è quello del concorso Mario Berrino, che si posa su uno specchio d’acqua reale, il Lago Maggiore.
Ogni anno mi stupisco di quanti scrivano d’amore. Con tanti stili ed esiti differenti, ma quella spinta deliziosamente ostinata li accomuna. Risposte, non affiorano.
Chissà perché scrivono d’amore: ciò che muove la mente prima delle dita. Un sussulto di ribellione o di obbedienza estrema, una fuga o un richiamo.
So solo che le parole scorrono o forse sono come funi lanciate da un marinaio, che cerca un motivo nuovo e antico per viaggiare.
Ogni anno mi stupisco di quanti scrivano d’amore. Con tanti stili ed esiti differenti, ma quella spinta deliziosamente ostinata li accomuna. Risposte, non affiorano.
Chissà perché scrivono d’amore: ciò che muove la mente prima delle dita. Un sussulto di ribellione o di obbedienza estrema, una fuga o un richiamo.
So solo che le parole scorrono o forse sono come funi lanciate da un marinaio, che cerca un motivo nuovo e antico per viaggiare.
giovedì 13 febbraio 2020
Corsi e ricorsi
Sotto quel soffitto importante, sentivo parlare di filosofia teoretica. Bausola. Il magnifico rettore, ma lui era così umano che nemmeno in quegli anni riuscivo a chiamarlo così.
Trent'anni dopo, 33 per la precisione, sono ancora qui, nell'Aula Magna dell'Università Cattolica: stanno presentando il Salone del Mobile di Milano, lo schermo rosso dalla scritta bianca, si fa sfiorare dallo sguardo.
Mi viene da sorridere pensando che forse proprio qui o in corridoio, arrivò un compagno baldanzoso - uno di quelli che come diversi di noi studiava Filosofia con la mente già orientata su Comunicazioni sociali - ad annunciare che una rivista di design cercava aspiranti giornalisti.
Mi viene da sorridere pensando che forse proprio qui o in corridoio, arrivò un compagno baldanzoso - uno di quelli che come diversi di noi studiava Filosofia con la mente già orientata su Comunicazioni sociali - ad annunciare che una rivista di design cercava aspiranti giornalisti.
Ci andammo solo in due, a bussare alla rivista: io, poco filosofa, e l'amica così differente da me... che tutti ci scambiavano per sorelle. Sembra un paradosso, ma noi sappiamo che non lo è: lo abbiamo capito ancora di più adesso.
Lì iniziò tutto, adesso sono qui, in quest'aula a prendere appunti su un computer per scrivere un articolo.
Forse, sono un'aspirante giornalista.
E mica finisce lì, perché la sera devo rientrare a Milano per l'ultima tappa del corso di conversazione di inglese. Non c'è diploma di liceo linguistico che tenga: avevo voglia di frequentarle, queste lezioni per giornalisti, per vari motivi. Pratico, così le interviste in inglese saranno più agevoli in futuro.
Ancora più pratico: un tempo, non sapevo perché studiavo (e pure poco, preferivo stare attenta in classe e poi dedicarmi a cose più interessanti a casa). Magari per compiacere gli altri, quelli importanti - la famiglia - e quelli un po' meno.
Adesso, ancora una volta, mi ha spalancato un mondo la Beata Benedetta Bianchi Porro.
Adesso, studio perché mi va. Una parola, un'espressione nuova, una sfumatura, l'angolo di un sorriso alcuni mi restano dentro, altri se ne vanno con un battito di ciglia, eppure ciascuno è importante. La sera, quando arrivo all'ultima lezione sono stanca e neanche certa di avere avuto compiti da svolgere: la medesima stanchezza leggo sui volti degli altri. Ma siamo felici. Perché non importa quanti anni abbiamo, ci stiamo appassionando a qualcosa. Da egocentrica, riconosco che ammiro solo qualcuno più di me in questa stanza: i miei compagni di studio.
Stanchi, con i capelli grigi, qualche ruga, affanni: dentro gli occhi, tuttavia, quella luce che significa ardere dal desiderio di imparare in un mondo che ci appare troppo dominato dalla nebbia di sapere.
Corsi e ricorsi. Sono un'aspirante giornalista, da trent'anni abbondanti.
E studio, per non sapere.
Corsi e ricorsi, che mi cullano nella notte e spero mi facciano risvegliare domani mattina, come quella fanciulla tratteggiata da Chesterton nell'Uomo che fu Giovedì.
Con inconsapevole gravità da fanciulla.
martedì 11 febbraio 2020
Una manciata distratta di stelle
La luna volava basso stasera, ma una luce strana ci ha colti di sprovvista.
Una manciata di stelle, sul cielo nero: qualcuno deve averle lasciate scappare, forse per un colpo di vento.
Una manciata distratta di stelle e noi ad ammirarle, gli occhi incollati alla loro luce mai studiata. Gli umani sanno mettersi in mostra, loro no.
Spettacolari nel loro silenzio.
Una manciata di stelle, sul cielo nero: qualcuno deve averle lasciate scappare, forse per un colpo di vento.
Una manciata distratta di stelle e noi ad ammirarle, gli occhi incollati alla loro luce mai studiata. Gli umani sanno mettersi in mostra, loro no.
Spettacolari nel loro silenzio.
lunedì 10 febbraio 2020
Nell’imminenza
A tentoni, eppure con precisione devastante, posso toccare il dolore nel buio. Con i polpastrelli trovo volti, contorsioni, tracce di lacrime.
Eppure, quando mi accogli con un cielo così, avverto l’imminenza di un senso. Come un’istruzione che ho perduto, ma forse la posso palpare nel fondo di un cassetto.
Piccolissima chiesa
Fin da bambina ho pensato che la mia chiesa fosse grandissima. Che potessi perdermi dentro, i soffitti altissimi e irraggiungibili, persino le lettere tracciate sui muri impossibili da afferrare tutte con la mente.
Poi succede che occorra stringersi per darsi una ragione o un abbraccio. E la chiesa, ad un tratto, è piccolissima: non sai se sia la fede, o l'affetto in una circostanza dolorosa. Sai solo che dentro pare non starci niente, i soffitti immensi forse si sono chinati a guardare come gli affreschi e le pareti li accompagnano.
Piccolissima chiesa, quella dove ci si trova insieme, davvero.
Poi succede che occorra stringersi per darsi una ragione o un abbraccio. E la chiesa, ad un tratto, è piccolissima: non sai se sia la fede, o l'affetto in una circostanza dolorosa. Sai solo che dentro pare non starci niente, i soffitti immensi forse si sono chinati a guardare come gli affreschi e le pareti li accompagnano.
Piccolissima chiesa, quella dove ci si trova insieme, davvero.
sabato 8 febbraio 2020
Niente omaggi
Niente omaggi ai prepotenti, quando marciano sulla tua vita. Puoi essere un guerriero, un futuro re o un volto senza traccia di fama.
Ma i prepotenti.
Hanno già in mano tutto, ma neanche ti sfiorano.
venerdì 7 febbraio 2020
In tutto questo
Un panorama che ha già tutto per rubare la scena. Una giornata che lo sprona a esibirsi, ancora. Eppure è così libero da non recitare una parte e da invitare sul palco un fiore.
In tutto questo, anch’io minuscola spettatrice sarò chiamata a dire una battuta. Ma in questo angolo di cielo appoggiato sulla terra preferisco ascoltare, ancora.
giovedì 6 febbraio 2020
Come quando so qualcosa
Ho provato a ribaltare le mie certezze, come un inverno malriuscito. Così mi sono resa conto che c’è qualcosa che mi spaventa più di ciò che non so. Ed è quello che penso di conoscere. Lo tenevo tra le dita, giocandoci come fosse una manciata di diamanti, poi era sabbia che scivolava via.
Forse per questo mi sono messa in cammino, anche quando potevo stare ferma e godermi un po’ di comodità presunta. Perché mi incute troppo timore ciò che penso di conoscere.
Come quando so qualcosa, un inverno malriuscito riesce a mettermi i brividi.
Forse per questo mi sono messa in cammino, anche quando potevo stare ferma e godermi un po’ di comodità presunta. Perché mi incute troppo timore ciò che penso di conoscere.
Come quando so qualcosa, un inverno malriuscito riesce a mettermi i brividi.
mercoledì 5 febbraio 2020
Luna scoperta
Il vento afferra tutto e lo scaglia lontano, come un bambino dispettoso. Lei sola mi incita a rimanere a guardarla, sotto la cappa del cielo azzurrissimo. E sarà poi la luna?
La luna scoperta, da un sorriso per un messaggio o da uno sguardo che non è mai abbastanza stanco per non levarsi.
martedì 4 febbraio 2020
È solo perché ti stavo pensando
Nella maratona globale ventiquattr'ore su ventiquattro, può apparire che pochi abbiano tempo di rispondere, ancor minor voglia. E se sei saggio ti abitui, a macinare chilometri di vita con le tue forze.
Poi lampeggia un messaggio di affetto. La motivazione ti spiazza, ancora di più: «È solo perché ti stavo pensando».
Non ti devono chiedere un favore o assegnare un incarico, sbrigare una faccenda che agli altri scivola via. Non ti devono nemmeno niente.
- È solo perché ti stavo pensando.
Parole così semplici, che sono un'inesauribile ricchezza; così ti fermi e osservi il paesaggio della vita.
domenica 2 febbraio 2020
Senza nebbia per le parole
Esistono almeno sette parole nella mia lingua per definire la nebbia. A seconda che sia spessa, bagnata, da inquinamento, nutrita di ghiaccio o di calore, e altro ancora.
La più bella a mio parere resta quella che le abbraccia tutte: scighéa. Mentre osservo dai finestrini la nebbia che si scioglie in brögia, non posso fare a meno di pensare che le parole possono scomparire, ma lei è già andata avanti. Lei con il suo profumo.
Tante parole aggrappate a dei fogli, se non alla nostra memoria.
E basta nebbia, se non rare comparse per indurci a riflettere sotto il velo delle cose.
Senza nebbia per le parole, un'unica grande nebbia ci avvolge perché tutto è troppo brillante per essere capito.