Potrebbe sembrare un libro di Dumas, dilatato, trent’anni dopo. È invece solo qualche pagina di vita, strappata, ricucita, riletta, anche sofferta ma non rimangiata. Dopo l’esame scritto di aprile, il ritorno a Roma per il rovente orale del 12 luglio lungo il Tevere.
Faceva caldo, peggio del 38 luglio (cit) e un funzionavo poeta mi mostrava i suoi libri. Come allo scritto, trovai al mio fianco tra i colleghi d'esame Veltroni.
Io volevo farcela, certo, ma non posso nascondere che un mio pensiero ricorrente era: se finisco presto, posso correre con mia madre al ristorante dell'albergo, quello dove mi avevano assicurato che spesso si recava Giannini, come pure altri giocatori della Roma. Un pizzico di incoscienza, aiuta a superare l'esame.
Del Principe, neanche l'ombra: i camerieri però mi attendevano con trepidazione per festeggiare.
Com'è andata?
Giornalista professionista. Come, Giannini non c'è?
Non è che io fossi indifferente. Ormai lavoravo da almeno sette anni, da quando ero ancora immersa nell’università; avevo cominciato sulle riviste di Milano, quindi al quotidiano. Avevo incontrato signori (no, minuscolo, qui il calcio non c'entra) e bastardi, un viatico della vita tanto impeccabile quanto da me inascoltato.
Era un traguardo per me e per molti altri. Per mio padre e mia madre: lui aveva finto di scoraggiarmi e non crederci, ma gli occhi brillavano a ogni articolo. Mamma era anche più carica, perché trovava tutti i refusi ed era una soddisfazione non di minore entità.
E poi c'era Luca. Non poi, prima. Senza di lui, probabilmente i bastardi avrebbero vinto, perché non ero abbastanza forte da sola: nessuno lo è. Luca, morto nel cuore della primavera, senza nemmeno potergli dire che avevo superato il primo round degli esami. Che lo dovevo anche a lui.
Penso a tutti coloro che mi hanno guidata, a modo loro, verso quel traguardo. Al mio primo direttore, Mino Durand; a Gigi Gervasutti che mi sottopose con rapidità non frettolosa il contratto di articolo 1. A Roberto Ferrario, sempre (e chi scorderà mai vent'anni e passa dopo la prima pagina del giornale che ormai avevo lasciato, con la foto della copertina del mio libro d'esordio con papà, l'immagine del nonno in prima pagina). A Gianni Fusetti, che mi insegnò tanto nel lavoro e nella vita. Ad Antonio Porro, che mi forgiò nella cronaca a ogni ora con strumenti tecnologici zero. A Mauro Gavinelli, alla mia "Thelma" Nicoletta Bagliano, ai colleghi con i quali l'amicizia andava oltre il pressante tempo condiviso.
Il 12 luglio 1995 faceva caldissimo per me,, le domande erano impraticabili, mi sfiancava la fatica degli ultimi anni e io volevo uscire di lì. Ma senza insofferenza, perché Roma era casa.
Quando scappai fuori e mi diressi verso l'albergo, avvertii la gioia del traguardo superato, ma anche la sua inconsistenza. Perché incredibilmente, non ero sicura di voler diventare giornalista. Adesso che avevo tanto lottato, ma che avevo anche le prime cicatrici, tutta la mia incertezza cresceva e sarebbe poi dilagata.
Giornalista professionista, che cosa vuoi che importi a questo mondo dove ognuno è ciò che appare: ieri come oggi, solo con strumenti diversi. Che cosa vuoi che importi a me, ferita da 15 anni di cronaca prima e poi altrettanti di economia.
Di quei giorni, forse, invidio solo quel pizzico di sana incoscienza, di dover fare sul serio eppure correre a cercare i giocatori della Roma.
Oggi mi è indifferente pure il calcio, sgonfiato dopo essere stato punto dall'ago della consapevolezza: la sua vanagloria, gli slogan vuoti quando non belligeranti come se di guerra non ce non fosse abbastanza (e vera, non solo quella per cui si scende in piazza con slogan incoerenti), gli eccessi che rimbalzano sui tatuaggi.
Oggi, mi sono indifferenti molte cose, perché alcune contano tantissimo.
Quel 12 luglio significa molto più di una formalità, un esame di stato per scrivere "professionista" su un tesserino di cui poi tanti si sarebbero fregati.
Significa porsi dubbi, interrogarsi su ciò che è giusto, non affrettarsi a scrivere la prima cosa incuranti di tutto, stare male. Sì, stare male, quando una storia ti scava dentro e non riesci a fuggirne, quando sbagli ferendo o ti rileggi e ti ritrovi accondiscendente come non volevi essere, quando non ti fai capire e molto altro. Quando pensi che devi aiutare a costruire un futuro per questo mestiere e vedi che nonostante i tuoi sforzi, dalle responsabilità troppi oggi fuggono: meglio lamentarsi, frignare e rifugiarsi in fragili comodità.
Ma un tesserino non esaurisce ciò che sei: lo guardo e so che posso fare qualsiasi cosa. E a qualsiasi cosa rinunciare, se non mi appartiene più. Tranne che a me stessa.
To start with
Nessun commento:
Posta un commento