Ho promesso, correggo giurato che non mi piace: non comprerò un libro in Scozia. Non ho voluto nemmeno la valigia per non cadere in tentazione. Mi sono data anche un conforto tecnologico: ho la complicità degli e-book.
Ad esempio, a ogni viaggio scozzese riempivo la valigia di libri storici o di romanzi come quelli di Ian Rankin. Tutti acquistabili online, basta.
Ma a Glenfinnan, terra dove è partita l'ultima guerra di liberazione, perdo il controllo di me stessa. Non sono nemmeno in una libreria, bensì in un negozio con merce varia. Recupero il libretto con le parole in gaelico, visto che avevo smarrito l'altro: solo questo, mi impegno solennemente.
Poi mi guarda, mi guarda proprio, "Glencoe" di John Prebble. Cribbio, io ho una venerazione per lui, in "Culloden" ho pianto come una dannata. E da notare che lui è nato in Inghilterra, ma è un'anima libera, troppo libera per non scrutare nelle sofferenze. Il libro sul disastro del ponte Tay è un capolavoro, un'indagine accurata che passa dalle vite umane senza mai calpestarle.
Glencoe, è una storia troppo complicata e dolorosa per me. L'ho letta, ascoltata nella canzone dei Nazareth, mi ricordo le interpretazioni degli attori a Edimburgo. Lo sfregio peggiore, perché calpesta l'ospitalità, legge antica come l'uomo.
Ma come la spiega lui, dev'essere unica ed emblematica, un'iniezione di umanità.
Prebble. E il mio giuramento violato.
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