Quando scendo dal treno e mi autoproclamo detentrice di una giornata faticosa, sotto i neon della sera incrocio lui.
Le nostre direzioni sono opposte e si sfiorano per una manciata di istanti. Vai a casa, gli chiedo ed è una parola strana perché il mio amico è africano. Non è preciso definirlo mio amico: lo è, di tutti. Quando cammino nel rione, scambio pochi saluti solitamente, in un flusso anonimo. Se mi capita di condividere un tratto con lui, ci metto un’ora a compiere la stessa, frettolosa strada perché tutti devono dirgli qualcosa. Che sia il barista, il passante, l’operatore ecologico: mi pare che il bus rallenti.
Stasera non c’è nessuno oltre a noi e lui va in cerca di un treno per tornare a Milano. A casa.
Non si legge nel suo sorriso la fatica, non so che lavoro faccia e se ortodosso. Non so cosa significhi, nemmeno, ortodosso.
So che la mia fatica ora mi appare poca cosa, di fronte a quella di un uomo che deve chiamare casa il luogo dove non può abbracciare la sua famiglia. Perché i suoi figli sono in Africa e ci va quando è possibile, meno di una volta all’anno.
La mia fatica di un giorno e cinquecento metri. E il suo viaggio verso casa che non si concluderà mai.
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