Non si può viaggiare nel Monferrato senza perdersi, non si può senza ritrovarsi. Ci sono luoghi che cantano come il loro vino e gli occhi della loro gente.
Nel nostro pellegrinaggio verso Castagnole, don Cauda e il Ruché, dobbiamo fermarci alle cantine Sant'Agata. Incontrare ancora Claudio, la sua umanità e la sua cultura (imprescindibili l'una dall'altra), è un piacere che va oltre l'incanto delle bottiglie. Come un piacere è incontrare sua moglie e sua figlia, una ragazzina ferma e adorabile che sa riconoscere gli aromi con spontaneità invidiabile.
È vita solcare queste valli e ribadire ai propri occhi che un vigneto, un campo, un bosco mostrano sfumature completamente diverse l'uno dall'altro.
Da Scurzolengo ci rechiamo (da giornalista frustrata ho una terribile voglia di scandire "ci rechiamo" invece del placido "andiamo") a Castagnole. Dove ci chiedono cortesemente che acqua preferiamo, ma sul tavolo scende implacabile il Ruché.
Sento altri aneddoti su don Giacomo Cauda, lo saluto nel luogo in cui ci ha lasciati dopo una processione del Venerdì Santo. Il sole scotta, come la voglia di respirare questa bellezza.
Salgo idealmente sullo scuolabus con la saggia bambina e ne conosco le tappe, i compagni. Mi fermo con gli altri ad accarezzare i grappoli e il pianeta: perché quando arrivo a un piazzale naturale, scandito dal noce, su queste dolci curve, penso che solo qui puoi sentirti il re del mondo.
E nell'aria i profumi si uniscono, in attesa della vendemmia. Un giorno, presto, i colori si impossesseranno di nuovo della scena.
Ma adesso in questa canzone struggente e implacabile che è il Monferrato, i fortunati siamo noi.
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