Deaths are often violent
there, but I hear these were despicably done.
(Corrag, Susan Fletcher)
(Just some minutes and a prayer in a place telling how cruel people can
be. Many films took place here. But there’s a tragedy no film could have
imagined)
19 settembre 2014 sera
La rincorsa dal Loch Lomond
è insidiosa, tra un pomeriggio che non vuole concedere spiragli costanti al
sole e lavori continui che ci inchiodano. Pazienza, è una scusa per ammirare
più a lungo il paesaggio, pieno di sussulti.
Dobbiamo correre, per
arrivare a Glenfinnan prima della sera, prima del buio che appesantisce la
stanchezza di un lungo viaggio: sono 162 chilometri, la tappa più lunga di
seguito per ora, ma bisogna raggiungere questa meta, perché ha un significato
speciale. Perché qualcosa mi chiama. Intanto non finisce mai questo tortuoso
perdersi lungo il lago e poi nelle vallate, quasi come un test, una prova in
cui dimostrarsi di essere degni come quelle che affrontavano i guerrieri.
Quindi, si alzano le montagne, che sanno differenziarsi pur ostentando il
broncio dolcissimo delle Highlands. A Glencoe, solo una sosta per un viaggio
nel passato e una preghiera.
Perché è vero, sono luoghi
bellissimi e il cinema giustamente li canta. “Braveheart” è passato di qui, né
si sono tirati indietro “Rob Roy” e “Highlander”. Non ha potuto fare a meno di
questo scenario meraviglioso la saga di “Harry Potter”, di cui riparleremo.
Ma c’è qualcosa di
terribile che aleggia su queste valli, qualcosa di dimenticato, almeno tra i
viaggiatori distratti o che non conoscono la storia di Scozia. Qualcosa che le
rende anche spaventose e guarda caso qui arrivò anche Alfred Hitchcock con “The
39 steps”, con la sensazione che si sia braccati e che tutto possa finire, da
un momento all’altro, che non si sia mai completamente al sicuro. Un contrasto
evidenziato anche nel romanzo a cui si ispira il grande regista. Quando si
butta dal treno, in fuga dalla polizia e da inseguitori molto più temibili in
quanto misteriosi, il protagonista si guarda attorno ed evidenzia proprio il
paradosso: in un posto così meraviglioso, dipinto dalla natura, per la prima
volta da quando ha lasciato Londra avverte il terrore di essere la preda.
Eppure – deve ammettere ancora a se stesso – non si poteva trovare una vista
più pacifica al mondo: si mette a correre disperatamente, comunque, finché il
sudore gli offusca gli occhi. Il protagonista che sceglie di tornare alla
Scozia dell’infanzia dopo un assassinio di cui non ha colpa, in una vicenda
intricatissima, qui si può andare a scarse contemplazioni. Anche quando si
ferma ad ammirare le verdi vallate e quindi il cielo blu di maggio, vede un
aereo e l’obbligo diventa trovare un rifugio.
Dalla fiction alla storia. A
Glencoe avvenne uno dei misfatti che l’umanità non ha parole per definire, la
violazione di una regola antica e profonda: la viltà che conduce
all’aggressione di chi ha offerto ospitalità, di chi tende la mano a porgerti
un bicchiere per riscaldarti e si vede pugnalare senza poterla usare per
fermare l’omicida, per tentare di difendersi.
Perché nonostante le
divisioni del passato, le ombre, un clan non esitò ad accoglierne un altro. E
pagò con la vita, con molte vite. Per dirla con i Nazareth, gruppo rock
scozzese, qualcosa di insospettabile stava per piovere loro addosso.
Se passerete da Glencoe un
giorno, se ammirerete la natura e vi dedicherete a meravigliose passeggiate,
pensate anche a loro, alle vittime di un episodio locale che diventa universale.
Siamo nel 1692 e MacDonald Clan Chief, MacIain of Glencoe, ha appena prestato il
giuramento di lealtà a re Guglielmo. Fuori tempo massimo, d’accordo, ma l’ha
fatto e pensa di averla scampata; nulla gli fa presagire il contrario. Tant’è
che quando arriva il capitano Robert Campbell con 130 soldati e gli chiede
ospitalità, non gliela nega, nonostante i rapporti non siano idilliaci.
La permanenza durerà dieci giorni. Immaginate
questi dieci giorni, che sono lunghi, lunghissimi. Nonostante i problemi del passato,
i MacDonald stanno garantendo un dignitoso soggiorno agli ospiti e non fanno
mancare loro niente. Chi è rimasto lì, ha guardato negli occhi, ha ascoltato le
voci, ha condiviso il cibo con le vittime predestinate. Conosce le loro
abitudini, le loro pene, i loro amori, l’affetto delle mamme. E’ di casa, e
quella casa sta per violare, ferire, distruggere.
Perché la notte del 12 febbraio arriva
impietoso l’ordine: uccidere tutte le persone sotto i settant’anni. Alle cinque
di mattina i soldati eseguono. Moriranno, in quelle ore, quaranta persone,
uomini, donne e bambini. Altri fuggiranno nelle valli circostanti e si
spegneranno per gli stenti.
FATE CHE SIA IMPROVVISO E SILENZIOSO
Pochi lo raccontano, lo cantano tragicamente
come John Prebble. Così attento a ricostruire dal punto di vista storico, ma
sempre ricordando che ogni vittima è una persona e dandole la memoria e la
dignità che sono state calpestate.
Che sia improvviso e silenzioso. L’ordine che
non può risuonare, ma è solo mormorato con il volume dei vigliacchi.
Nei giorni precedenti, dei vicini erano
andati a chiedere a MacIain di mandare via quei forestieri, perché qualche
indizio era giunto, eppure lui rispose
che non l’avrebbe fatto. Che erano ospiti di Glencoe e avevano spezzato il pane
insieme, per cui non doveva essere procurato loro alcun male.
Tutto sembra ancora più assurdo, ogni parola
accresce il crimine e il dolore. I soldati non seppero niente, se non
ventiquattro ore prima. Ma ancora, ventiquattr’ore sono moltissime e ogni
minuto permette di guardare in faccia i padroni di casa, i loro discendenti, di
vederne un sorriso, un’ombra, un capriccio, una traccia di dolcezza. Di
memorizzarne la fragilissima umanità.
Per qualcuno, vale. L’ordine non è la
giustificazione, di fronte alla coscienza che resta più potente. Forse qualcuno
concesse davvero un avvertimento come uno di loro che, trattato come un figlio
in casa, ruppe una sera di ostinato silenzio rivolgendosi ostentatamente al
cane: se fossi in te, dormirei tra l’erica. Tutto ciò che riuscì a fare, ma
abbastanza per farsi capire: la famiglia fuggì sulle colline quella notte,
mentre lui dormiva o fingeva di farlo. E ancora, venne intonato un lamento di
preavviso e gli stessi figli del capoclan vollero vedere chiaro sul numero di
soldati presenti e scoprirono cosa stava accadendo: ormai, però, era troppo
tardi, perché la strage era già iniziata.
Le cinque.
La prima vittima del clan fu Duncan Rankin:
la corrente trasportò il suo corpo nel Loch Leven.
Presto, toccò allo stesso capo. Non c’è modo
di frenare l’indignazione, di non percepire le mille sfumature dell’infamia. Fu
svegliato mandandogli a dire che i soldati se ne stavano andando. Lui si
affrettò a dare ordine di portare del whisky al giovane ufficiale – questo il
suo ultimo desiderio, dimostrare ancora una volta l’ospitalità - e si apprestò
a vestirsi: non fece in tempo nemmeno a completare questo gesto, fu trucidato
in camera sua.
L’urlo della moglie, agghiacciante, come ciò
che scandì i minuti successivi. Il corpo del capoclan trascinato, la donna che
cercò di buttarsi invano sul marito, ma fu fermata, spogliata, persino degli
anelli a morsi: le fu risparmiata solo la vita, unico gesto di pietà. E quando
i figli la ritroveranno, le cureranno inorriditi le dita lacerate: almeno queste
possono essere medicate.
A questo punto, i domestici riuscirono a
mettere in fuga i figli, con le loro famiglie. Con l’avvicinarsi dell’alba che
portava il pericolo della luce, bambini e donne furono sospinti verso le
colline. Non si poteva sperare nella grazia per loro e in effetti ciò che
accadeva ancora, nel frattempo, aggiungeva altra nefandezza, altro orrore.
Come un ragazzino tra i dodici anni che si
aggrappò alle gambe di uno dei Campbell, uno di quelli che ora esitava, perché
aveva trovato un salvacondotto e già aveva cercato di fermare l’uccisione di un
altro giovane: ma quel bimbo venne subito ammazzato su ordine del capitano
Drummond.
Questo fu solo il terribile inizio. Restarono
uomini, soprattutto donne e bambini straziati nel gelo delle colline, affamati
e turbati da ciò che avevano visto e da ciò che ancora poteva aspettarli,
compresa la deportazione.
Nessuno pagò mai veramente, ammesso che si
possa pagare per un simile crimine.
Una tragedia così locale, carica di valori e
crudeltà universali, che da Glencoe parte e viaggia nel mondo, come una
metafora dell’abisso in cui sa scendere l’umanità.
IL MUSEO E LA VENDETTA
Se tornate a Edimburgo ed entrate al Dungeon
dedicato alla storia scozzese, potrete ripercorrere le ore e l’angoscia di quel
massacro. E’ un mondo particolare, l’Edinburgh Dungeon, dove la storia si
racconta in modo avvincente, a volte simpatico per smorzare l’orrore: come nel
caso dei resurrezionisti, che meritano un posto pure nella saga dell’ispettore
Rebus, i due loschi individui che prima rubarono i cadaveri per aiutare
l’università nelle ricerche, poi pensarono di aumentare i guadagni accelerando
la dipartita di soggetti emarginati.
Per il massacro di Glencoe, c’è spazio solo
per l’angoscia. Eppure non sono mancate le polemiche, con i MacDonald che hanno
temuto la spettacolarizzazione della tragedia. Da notare che l’anno prima
c’erano state altre scintille, all’apertura del Centro commemorativo di
Glencoe, per cui era stato indicato come responsabile un Campbell. Così commentò
uno storico, Hector MacDonald: “Non ho niente
contro i Campbell, ma non starei una notte in compagnia con uno di loro”. Anche
se un’altra McDonald collaborò e ha preferito il sorriso: “Non cerco la strada
della vendetta”.
Si possono unire sorriso e
vendetta? Qualcuno, a quanto pare, ci ha provato. Nel 2003 il manager Andrew
MacDonald prese la rubrica del telefono, trovò con solerzia tutti i Campbell
residenti a Edimburgo e provvide a informarli via lettera che avrebbero dovuto
pagare il doppio per entrare al Dungeon. Come un dazio a tre secoli di
distanza, una specie di riparazione tra discendenti. O una manovra
pubblicitaria, fu un altro commento. Di sicuro, ci furono solo le repentine
proteste.
Perché ripensare a Glencoe,
riparlarne in queste ore? Non c’entra con il referendum e anche se il delirio
fu deciso dalle alte - e lontane - sfere, si consumò tra clan. Come in fondo si
frantumò il sogno dell’indipendenza mezzo secolo dopo, con il Bonnie Prince
Charlie che si trovò di fronte un popolo straordinario, ma diviso. C’era troppo
da perdere, c’era troppo da soffrire.
Sì, Glencoe mi riporta
drammaticamente il sapore del dolore che la Scozia ha sperimentato, qui in
misura estrema, ma ripetutamente in termini comunque pesanti. Un episodio unico per impatto di disumanità,
eppure non realmente isolato.
Come scrive un personaggio del
romanzo “Corrag” (nome di una strega bruciata e vicenda che parte proprio da
quei fatti orribili), le morti qui sono spesso violente, ma ho sentito che
queste furono particolarmente spregevoli.
Nel mio Paese sul referendum ho
ascoltato tanti di dibattere sul referendum con arroganza, sia che lo
sostenessero (spesso per i comodi loro, accostando esperienze nazionali così
diverse) sia che lo rigettassero (con uguale presunzione di sapere tutto ciò
che c’è da sapere). Spesso con la solita, noiosa contrapposizione nello stile
calcistico.
Non è folclore, la storia. E’
vita di persone che merita rispetto. La differenza di oggi è che possono
decidere da che parte stare. Che si possono dividere, senza procurarsi altro
dolore, perché la libertà è dalla loro parte. In realtà, ancora si divideranno
e non sappiamo se la sofferenza finirà mai. Ma i loro avi avrebbero, hanno dato
molto perché si arrivasse alla possibilità di scegliere, indipendentemente
(scusate se suona come un gioco di parole) dall’esito.
Mi consolo con un romanzo che
cura molte ferite: la trilogia giacobita, scritta da una donna straordinaria
quale Dorothy K. Broster. Narra le
vicende di Ewen Cameron e di personaggi che ruotano attorno a lui, nell’ultima
decisiva sfida del principe Stuart. Anche qui riecheggiano divisioni,
tradimenti anche nel bene. Ma il perno della storia è un’amicizia
controcorrente, quella tra Ewen e l’inglese Keith Windham: il ribelle e il
capitano si trovano uniti, come vittime di un incantesimo del bene e rimarranno
sempre fedeli l’uno all’altro, difendendone la vita o la memoria.
C’è un aspetto, ancora più
bello, del romanzo in sé: le Highlands splendono qui e vi coglierà la voglia di
correre al Ben Tee, ammirare questa luce che tutto trasfigura, lo specchio
d’acqua fatato, la bellezza che si offre in queste pagine di fantasia
affacciate su un mattino dell’estate 1745. Solo uno scozzese può trasmettere la
potenza di questo scenario.
Peccato che lei fosse nata a
Liverpool. La sua riservatezza era tale (sui libri troverete solo le iniziali
del nome, D. K.) che molti fans del suo capolavoro, poi portato sul piccolo
schermo, a lungo furono convinti che si trattasse di un uomo, e ovviamente nato e cresciuto in terra di
Scozia.
LA CANZONE – Glencoe Massacre,
Nazareth
Nel 1966 un gruppo di ragazzi
scozzesi decide di mettere su un gruppo e il sogno diventa realtà nel giro di
due anni. Sono i Nazareth, suggestivo nome per una band nata a Dumferline. Non
proprio una città qualsiasi, ammesso che in Scozia esista una città qualsiasi,
che non abbia una storia da raccontare: personalmente, la devo ancora trovare.
Comunque, per intenderci, qui
c’è un’abbazia con le spoglie di Robert Bruce. Anche Ian Anderson dei Jethro
Tull nacque in questa località. E se vogliamo uscire dalla musica e tornare
nella storia, incontriamo Carlo primo d’Inghilterra, che finì decapitato nel
1649. I moschettieri di Dumas ve lo raccontano, con il cuore straziato per i
vani tentativi di salvarlo.
Non è dimenticato, nelle corde
dell’anima, se negli anni Settanta c’è anche chi avverte la necessità di
scriverci una canzone e il titolo è quasi didascalico, non evocativo: perché
basta citare il massacro per far percepire tutta la follia umana.
Ascoltando i Nazareth,
capirete chi è determinante nel ricordare: la nebbia. Quella che in realtà non
si dovrebbe nemmeno chiamare nebbia, perché è mist, quella foschia che non ti
chiede, che arriva e ti avvolge, che entra dentro di te e che, è vero, sembra
sempre raccontarti qualcosa di antico e irresistibile, nel bene e nel male. E’
lei, la nebbia sulla collina a ricordare l’omicidio, quel sangue che copriva le
terre, lo sguardo bramoso di uccidere dei soldati. E fotografa, con il solo
potere dell’anima, la sentinella addormentata sul fuoco, i bambini che
giocavano nel letto. Tutti privi di sospetti, tutti non avrebbero visto l’alba
il giorno dopo.
E insanguinate, e
maledette, le lame che affondarono nei bambini, l’odio è la luce accecante che
cerca di sterminare un clan. Nessuno conosce tutte le persone morte lì, ma da
quel giorno Glencoe richiama la vergogna.
Forse neanche le colline ebbero
pietà, rompendo il silenzio per avvisare.
Fatto sta che nessuno vide la luce, quel giorno del 1692 a Glencoe.
Nessun commento:
Posta un commento