Forgive me, Bannockburn (19 settembre 2014 - mattina)
È in verità non per la gloria, né per le
ricchezze, né per l'onore che noi stiamo combattendo, ma per la libertà –
dichiarazione di Arbroath
(I
had never been here before: the new site left me astonished and impressed. But
also listening to Arthur, a yes supporter. While King Robert on his horse
seemed to watch)
Bannockburn: è qui che è successo settecento anni fa. Come mi aspettavo,
anche dimenticando “Braveheart”: un luogo sperduto, quasi casuale, che si
sottrae alla curiosità superficiale. Pur fuggendo dalle deviazioni storiche, mi
rifugio in quell’ultima scena del film di Mel Gibson. Perché forse Robert Bruce
era così, quasi tremante, comunque consapevole di quanto si stia rischiando o
di quanto non abbia rischiato prima.
Avete combattuto per William Wallace, lo farete per me? Il prato –
perché questo è adesso, morbido e senza confini – sembra correre come i
guerrieri che sfidarono i più numerosi inglesi. E’ il 23 giugno e non dovrebbe
esserci storia: per questo motivo, si farà la storia.
A Bannockburn non importa se tu abbia sposato, anche solo sfiorato, una
delle due parti del referendum: difficile che tu non sia colpito dalla
tentazione di chiedere scusa a re Robert e a quei soldati. Conta quel 23
giugno, la vicina Stirling (dove oggi il 59,77% ha votato no, è l’implacabile,
attuale promemoria e tra l’altro lì c’è uno dei record di partecipazione, con
oltre il 90%) e il suo castello sono in mano all’esercito scozzese: il sovrano
inglese – sì, lo stesso Edoardo strapazzato dal padre che avete conosciuto al
cospetto di Braveheart – non sta a guardare. Duemila cavalieri e quindicimila
fanti, l’esercito di Inghilterra. Tra i settemila e i diecimila gli scozzesi:
non più di 500 erano a cavallo. Tra accette e spade, pochi archi a differenza
degli avversari che risultano equipaggiatissimi.
Roba da darsela a gambe oppure sottoporsi al massacro, rassegnati. Non
c’è modo di cavarsela, di riprendersi ciò che si considera proprio, di portare
avanti una sfida che persino Braveheart, pur per via del solito tradimento,
aveva perso.
Forse non è nemmeno accaduto in questo punto, mi dico. Ma vallo a
pronunciare ad alta voce, davanti alla statua di Roberto con il suo cavallo,
realizzata nel 1964 da Charles D’Orville, per il 650° anniversario. Qualche
remora è da mettere in conto, nel silenzio di questo spazio e di questo tempo.
UN PASSO INDIETRO
Nel film di Mel Gibson, Bruce appare spesso esitante, cammina sul filo
del tradimento, viene manovrato dal padre per rivendicare il diritto al trono.
E’ questo, in fondo, che lo sminuisce rispetto a Wallace nell’opera: non
solo una fine drammaticamente diversa, ma muoversi in uno scenario di
rivendicazioni e di potere a cui Braveheart è allergico. Wallace è invece
dipinto come il simbolo di chi si batte per la libertà e soltanto sul finale
Bruce riacquista autorevolezza gli occhi dello spettatore, ma deve citare quel
nome così amato dai suoi soldati per andare verso l’impresa impossibile.
Storia e cinema si osservano, restituendo brandelli di verità. Wallace
fu catturato per un gesto vile – consuetudine che ricorre nelle pagine dedicate
agli eventi scozzesi e dell’umanità – e fu sottoposto a una morte orribile.
La vita di Bruce non fu comunque rose e fiori: a lungo re senza regno (
fu incoronato dalla giovane e coraggiosa contessa di Buchan, un anno dopo
l’assassinio di Braveheart, e lei stessa finì in una gabbia esposta all’aperto
per gli ultimi anni della sua breve vita), gli furono rapite moglie, sorella e
figlia, mentre suo fratello fu giustiziato.
Prima che arrivi il giorno della battaglia decisiva, deve accadere
qualcos’altro che di primo acchito può oscurare la gloria dell’impresa: re
Edoardo I è morto e gli succede il figlio che non brilla, dichiaratamente. Ma
le proporzioni dei due eserciti sono quelle di cui vi abbiamo parlato ed
evidenziano il trionfo, contro ogni numero, contro ogni legge di equilibrio
delle forze.
PIU’ DI GOLIA
Così torniamo qui. Pochi giorni dopo il referendum, il sito accoglierà
il suo visitatore numero cinquantamila, dopo la riapertura – nel segno del
rinnovamento – nel marzo 2014. Un’americana del Texas è stata celebrata in
questo modo. La sua storia è interessante, poiché Linn Forney Young è
presidente delle Figlie della Rivoluzione americana. Pare che nel suo gruppo,
costituito da un centinaio di persone, ci siano discendenti di persone che
hanno combattuto da entrambe le parti a Bannockburn, persino diretti eredi di
re Bruce.
Ma oggi è ancora il 19 settembre e l’indipendenza per cui si combatté, è
stata rigettata attraverso il referendum.
Il campo sterminato, verdissimo, dove un corvo insegue le invisibili
prede, è tranquillo, nonostante i turisti. Se si chiudono gli occhi e ci si
affida alla storia, da sfogliare o gustare in 3D, la notte è già volata via;
Alexander Selton, scozzese che combatteva con gli inglesi (quante volte
accade), si reca da Bruce e lo rassicura: il morale dei tuoi nemici è basso.
Basso? Ma se sono così numerosi, preparati, solidi e ben armati. Chissà se,
chissà come lo convince o forse già una fiamma muoveva il sovrano, fatto sta
che lui e i suoi seguaci si avviano. Prima, si inginocchiano ed Edoardo, ancora
sordo alle voci di monito di Bannockburn, pensa che stiano implorando pietà e
se ne compiace.
Ha ragione, osserva un soldato: ma non invocano compassione a lui, bensì
a Dio, perché sanno che o vinceranno o moriranno. Non c’è scelta, a
Bannockburn. Non ce l’ha Robert Bruce, nessun uomo la possiede, fino all’ultimo
degli scudieri: oggi bisogna combattere.
Così un giorno, un giorno solo basta per capovolgere il corso degli
eventi e il dominio degli inglesi.
Flower of Scotland, questo è il suo teatro. Oppure… Scots Wha Hae. Se
devo dar retta a qualcuno su quanto avvenne negli istanti prima della
battaglia, voglio ascoltare il poeta Robert Burns. Questo è il giorno, questa è
l’ora. Il campo corre e si ferma, come un letto di gloria o una tomba, perché
le alternative sono solo queste: vincere o morire.
Eppure c’è una frase stampata su queste strisce di mura ora moderne
(tutto è stato rifatto meno di tre anni fa), capace di interpretare meglio lo
spirito di ieri e di oggi: appartenere a se stessi, e a nessun altro. Non è una
pretesa da poco, per un uomo libero, per una nazione, e io provo un brivido di
fronte a queste parole vergate sulle pareti quasi candide.
Una nuova rotonda racchiude questo percorso e le parole sono di una
scrittrice scozzese, Kathleen Jamie.
Incontro persone di ogni età e nazione, ma fermo Arthur. Perché gli
chiediamo di farci una foto, anche se non sta bene al cospetto del re e del suo
cavallo anche più minaccioso come se captasse il nostro provenire da lontano,
il non poter capire le ragioni di un evento simile e nemmeno di quello odierno.
E perché io voglio cogliere da questo signore dai capelli bianchi perché provo
un sentimento così strano, come se dovessi chiedere scusa a Bruce a poche ore
dal verdetto del referendum.
Mi hanno rimpinzato di storie tipo “gli anziani hanno sostenuto il no”.
Arthur non è un ragazzino e ha girato il mondo: si illumina quando parla del
Giappone, terra di tecnologia e cortesia. Non ci scatta una foto, bensì una
raffica perché non è sicuro che l’iPhone
funzioni bene.
Lui ha votato sì, e guai a dubitarne. Il giorno dopo, devo
ammettere che trovare uno scozzese dichiarato contro l’indipendenza è arduo
quanto poche ore prima, e mi ricorda i paradossi di certe elezioni italiane,
dove nessuno fa outing neanche con maggioranze schiaccianti ormai palesate.
Arthur, però, è sincero. Terminata la propria opera di gentilezza, non
corre via, ma ci affida l’analisi del voto che ha messo a fuoco in queste ore:
la gente ha avuto paura di cambiare. Non la giudica, non si scandalizza,
neanche si arrabbia: aspetta il futuro a cui non si è voluta imprimere una
direzione, ma lo si è lasciato in mano a Londra.
Londra. Che impressione sentirla pronunciare come una meta distante e
distaccata da un uomo che non è confinato nella sua terra: la ama, certo, ma
non teme di esplorare il pianeta.
Arthur qui è stato dodici volte e anche oggi passeggia e china il capo,
rispettoso, al cospetto di re Bruce. L’uomo che quando non c’era storia, fece
la storia settecento anni fa.
Non ce l’ha con Cameron, Arthur: “Ci ha dato l’opportunità di votare,
bene. Ma purtroppo tutto deve passare da Londra oggi e continuerà così. Il mio
popolo ha avuto paura di cambiare” insiste.
Eppure qui a Bannockburn il campo di battaglia si è trasformato in
omaggio alla modernità e all’anniversario del 2014, seguendo anche il sentiero
del 3D. Ad Arthur non piace, ma premette che è un suo gusto personale. In
fondo, se prima arrivavano 25mila visitatori all’anno, ora sono raddoppiati nel
giro di sette mesi.
E’ interessante e piacevole parlare con lui, ma solo più tardi mi rendo
conto che avrei voluto rivolgergli un’altra domanda. Perché proprio oggi è
tornato da re Bruce, se anche lui voleva chiedergli scusa.
O forse la vittoria è, resta evidente e la grida il risultato nascosto
di questa votazione. Oh sì, evidenziato a più riprese, ma in fondo sempre in
secondo piano, mentre non lo è affatto. L’84% degli scozzesi è andato a votare:
per le elezioni solitamente la percentuale non è così alta, da un pezzo.
Lo dice bene uno dei tanti tweet sull’argomento: se i politici
riuscissero a coinvolgere, impegnare così il popolo, durante altre votazioni.
La vera sfida per un Paese migliore passa da qui.
Da una Scozia civile, ferita comunque il giorno dopo – e lo sarebbe
stata con voto ribaltato – ma decisa ad andare avanti, fiera di sé. Tra chi
sospira di sollievo e chi sa di avere una promessa da mantenere.
Canzone – Hurt, di Johnny Cash
Wallace, più di Bruce, ha ispirato registi e
cantanti. Una delle pietre miliari è “The clansman”, l’inno alla libertà
firmato dagli (inglesissimi) Iron Maiden, come omaggio a Braveheart.
Ma per la tappa a Bannockburn, ricordando Bruce
e gli scozzesi che combatterono con lui, ho scelto una canzone più sotto pelle,
come la puntura che riecheggia tra le note.
Pochi cantautori sono più americani di Johnny
Cash, eppure casualmente ho appreso che lui riteneva essere di origini
scozzesi. Di più, secondo la figlia Rosanne, ne era quasi ossessionato. Aveva
infatti scoperto di provenire dal ramo di re Malcolm IV di Scozia, durante un
volo aereo, parlando con un passeggero incontrato per caso. Non un sogno
rimasto separato dalla realtà, visto che Cash si recò nel Fife e negli anni
Ottanta girò anche uno speciale natalizio nella “sua” terra. La stessa figlia
tornerà in questa zona e ripercorrerà le orme del padre.
Questa storia e il vuoto pieno di ricordi a
Bannockburn mi fanno ripensare a una canzone meravigliosa di Cash, “Hurt”.
Una dedica a re Bruce e a tutti coloro che sono
rimasti feriti, dal proprio coraggio, da una propria scelta o da quella degli
altri.
Perché l’unica cosa reale, a volte, è il
dolore. E lo si provoca quasi a rendersi conto se si possa ancora sentire
qualcosa. A Bannockburn, settecento anni fa, pronti a provarlo per l’ultima
volta; oggi ad aggirarsi chiedendosi cosa direbbero questi guerrieri.
But I remember everything. Forse questa è la
dannazione, e la salvezza, della Scozia. Che si ricorda tutto. Che tutti
sembrano andarsene alla fine. Che la corona è fatta di spine e la si indossa su
una sedia di bugie, di pensieri irreparabili.
E mentre a Bannockburn cammino, temendo di
sfiorare quei campi verdi che si perdono sullo sfondo, mi sembra di scorgere
quelle macchie del tempo. Le persone che hanno combattuto, quelle che hanno
votato, quelle che si sono indignate e quelle che si sono decise a non rompere
uno status quo: tutti siamo qualcun altro.
E dalla voce ferita di Johnny Cash, americano
alla ricerca della sua scozzesità, rileggo la grande verità, sempre cercata
dall’uomo: se potessi ricominciare a un migliaio di miglia di distanza...
Mi devo rimettere in viaggio. Re Bruce capirà,
se seguiamo le parole di un suo discendente, Benedict, l’anno prima del
referendum, quando tornò la statua equestre, restaurata: “Lui invitò i suoi
seguaci a diffondere l’amicizia per tutta questa terra”.
Anche questa è una vittoria che non passa.
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