A Dundee tacciono le navi ora: su quella del capitano Scott e dei suoi uomini non sale più nessuno che possa ascoltare la loro storia. Anche lì è scattata la chiusura temporanea per l'emergenza coronavirus.
Forse anche per questo stasera ho voglia di posare un fiore. No, c'è un'altra ragione. In questi giorni in cui troppi uomini e donne cadono per il virus, avevo sentito parlare di "immunità di gregge" oltre la Manica, salvo cattive interpretazioni o ripensamenti perché ora scattano i provvedimenti pure lì.
Ciò mi ha fatto irrimediabilmente pensare al capitano Roberto Falcon Scott e alla sua missione in Antartide, come racconto ne "L'importanza di essere secondi". Questa è l'ultima settimana di vita per lui e due dei quattro compagni (Wilson e Bowers), di ritorno dal Polo Sud, 108 anni fa.
Mi dicono che nelle spedizioni estreme vige una regola: se qualcuno si fa male e ostacola il ritorno, va lasciato per tornare poi a provare a soccorrerlo. Se ancora sarà in vita.
Se invece ci si rallenta per prendersene cura con scarse possibilità, si assume un rischio troppo grosso: quello di soccombere, tutti. È semplificare, ma non è inesatto, pensare che questo è quanto accaduto in quell'occasione. Già con Edgar Evans erano sorti problemi, che poi portarono alla sua morte. Ma la sfida morale cruciale avviene con Lawrence Oates. Quest'ultimo, dopo il coraggio dimostrato, fu spesso indicato come emblema del coraggio britannico, mi chiedo però se i tre compagni non lo furono da meno.
Oates aveva i piedi congelati e stava sempre peggio. Per non frenare ulteriormente i compagni, rinunciò a scongelare gli arti inferiori, alla fine, perché almeno sentiva meno il dolore. Già questo rivela di lui quanto basta. Eppure no, non basta. Arriva ad esortare gli altri ad abbandonarlo, ma questi non vogliono sentir ragione. Tant'è che durante una bufera di neve, Lawrence prende questa decisione: si allontana, con la fatica del dolore, dicendo sbrigativamente che uscirà e non tornerà presto.
I am just going outside and may be some time
I compagni capiscono benissimo le intenzioni e tentano di dissuaderlo, invano. Oates non vuole impedire loro di salvarsi, sa benissimo che il rallentamento del ritorno è dovuto a lui.
Sì, Oates è uno splendido esempio di orgoglio britannico. Ma mi chiedo se Scott, Evans e Wilson non lo siano con la stessa intensità.
Potevano salvarsi, probabilmente; forse avrebbero dovuto. Eppure c'è un dovere più forte che chiama, quello di essere umani e di prendersi cura di tutti, a partire dal più fragile, costi quel che costi.
Questo cammino nel ghiaccio mi commuove ogni marzo, ma quest'anno assume un significato ancora più travolgente.
Penso a questo virus maledetto e a quella malefica espressione per cui si abbatte sui più fragili. Non è neanche vero - ci raccontano persino le fredde statistiche - ma lo fosse, ciò significherebbe solo un'altra cosa: che per quei fragili bisogna lottare ancora di più. Perché non possiamo lasciar indietro nessuno. Perché non c'è nemmeno qualcuno da cui correre per chiedere aiuto.
Il capitano Scott aveva un dovere, quello di riportare indietro i suoi uomini. Ha voluto salvarli tutti e paradossalmente non c'è riuscito, proprio perché non ha voluto salvare solo se stesso o parte della squadra.
Il dovere più forte, era restare umani. Per questo è un esempio di orgoglio umano, anzi una testimonianza.
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