Conosco troppe persone. Me lo ripeto, quando apprendo di un'altra croce sulla strada di questo virus che chiamiamo maledetto per prenderlo a pugni, in qualche modo.
Conosco troppe persone, è chiaro che la statistica mi inchiodi al dolore. Chi sta lottando, chi ha lottato e non lo fa più, non può: tutti sfilano implacabili nella testa. Ma anche chi non ho incontrato affatto, il familiare o l'amico dell'amico. E infine, non posso ignorare coloro che non ho conosciuto per niente e che i giornali mi offrono, abbracciati alla loro storia.
Conosco troppe persone. Agito la statistica, per allontanare questo bruciore all'anima.
In questi giorni, un uomo con il quale stavo parlando a un certo punto ha pianto: stava bene, ma doveva chiudere la sua azienda e aveva paura, come i suoi operai. Mi sentivo una giornalista dissennata, come se avessi frugato nella sua vita con quelle domande invasive che tanto ci dannano.
Ho provato a consolarlo, ma la voce mancava anche a me.
E poi arrivi qui, al bivio di un sabato smarrito. Ti dicono che un lottatore non ce l'ha fatta. Così lo descrivono e io ci credo.
L'ho conosciuto cinque mesi fa, in una delle mie giornate pazze che mi fanno viaggiare tra le storie. Mi mostrò tutto quello che aveva realizzato nella sua attività, ma c'era qualcosa che gli premeva di più raccontarmi: i suoi progetti. Quello che aveva fatto, lo deliziava e non gli bastava. Mentre parlava del futuro, aveva le stelle negli occhi.
E questo penso, da bambina: che chi ha le stelle negli occhi, chi arde per realizzare un futuro per sé e per gli altri, dovrebbe avere degli anticorpi, capaci di sconfiggere qualsiasi nemico. Anche un virus, che invece delle stelle negli occhi se ne frega.
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