Sto camminando lentamente sotto la pioggia, cercando di seguire una strada di senso, quando incrocio un ragazzo che pedala, carico di volantini: questi sono fradici, come lui, i suoi capelli, la camicia. Lui non sembra mostrare disagio. Mi fermo, affranta dall'impotenza. Io infatti non porto ombrelli, detestandoli cordialmente, e indosso solo un cappellino impermeabile rosso.
Gli avrei dato il mio ombrello, l'avessi avuto, mi dico e una vocina dentro mi sussurra che devo piantarla di affliggermi. Ma ecco che incontro un anziano che ha posato lo sguardo sul giovane in fuga, poi su di me ed esclama: «Poveretto».
Spaesati entrambi, lo osserviamo e io so che questa scena non la dimenticherò.
Non dimenticherò neanche quello spiffero gelido nella stanza di pensieri, a cui non so dare un nome. E forse perché non posso dimenticarlo, si ripresenta.
Non scorderò il bacio a sorpresa a cui ho assistito più tardi: pioveva delicatamente, mentre io andavo da mio padre e vicino a una lapide ho visto due persone tenersi per mano, fermarsi ad un tratto e baciarsi con trasporto eppure con una sorta di pudore prima di riprendere il cammino tra coloro che stanno riposando.
Ho alzato la testa, in queste e altre occasioni, e ho visto un cielo che non voleva stare fermo, come a catturare ogni immagine sotto di lui.
Un ragazzo bagnato dalla pioggia, una brezza gelida, un bacio che riscalda: tutto quello che corre dentro il cielo, resta dentro di me.