giovedì 14 agosto 2025

Quei ragazzi uniti dalla fatica e dalla gioia di fare sport e le esclusioni che feriscono anche la pace

 

C'è un momento dell'incontro con i ragazzi dalla Galilea in Italia tanti anni fa, che è rimasto scolpito nella mia anima, un antidoto per me a questo periodo che cerca di risucchiare la speranza. Ogni spettacolo del Teatro Arcobaleno Beresheet LaShalom con Angelica è stato  per me un rigenerarsi nella riflessione sulle differenze che uniscono e nella speranza concreta di pace. Ma anche il calcio scriveva analoga storia con Yehuda e i giovani.

Perché anche lo sport sa far crescere insieme, con la sua bellezza, i suoi sacrifici. 

La fatica gioiosa di trovarsi per gli allenamenti, andando oltre ogni ostacolo, fisico e non solo, ci aveva conquistati tutti. Una sera, durante la tournée del teatro un giovane calciatore andò dall'allora presidente della Pro Patria Alberto Armiraglio  stringendo la maglia che gli era stata donata. Aveva gli occhi lucidi e gli disse, riconoscente: «Quando verrai in Israele, devi dormire a casa mia». 

Una maglia, delle scarpe, un tesoro di valore incredibile: l'emozione e la gratitudine appartenevano ai ragazzi ebrei, musulmani, cristiani.

Questo ricordo, stupendo come tutti quelli che riguardano la missione di pace - pace autentica, non quella che si esprime con gli slogan apparenti per un popolo, contro un altro - di Angelica e Yehuda, ha per me un sapore agrodolce oggi.

Non volevo credere ai miei occhi leggendo della petizione promossa da esponenti di un gruppo politico - e alcuni da me erano conosciuti e stimati - per sospendere gli atleti israeliani da tutte le competizioni internazionali.

Lo sport che unisce, lo sport strumento di pace? Dov'è finito?

La mia delusione è profonda. Ho anche firmato la petizione che si oppone a questa richiesta (QUI), ma soprattutto sono sconvolta e preoccupata, sempre di più. 

Il mio dolore cresce, pensando a chi ha potuto gareggiare in una competizione internazionale - quella dallo spirito più elevato che unisce i popoli, 53 anni fa - e non c'è più: gli atleti israeliani, seviziati e uccisi alle Olimpiadi di Monaco. 

lunedì 11 agosto 2025

«Non importa se l'immagine è falsa». La fatica perduta insieme ai dubbi, il livore e io giornalista che mi sento impotente

                                                                      

Immagini false. Le segnali alle persone che - ne sei certa perché le conosci, conosci la loro storia - le diffondono attraverso giornali o il classico post social con la vuota scritta "dal web": neanche, tragicamente, fa differenza, visto che la mancanza di controllo è una malattia dilagante. Il risultato alla segnalazione è quasi sempre il silenzio, se non il livore: che importa se la foto è falsa, la tragedia è vera.

Una tale indifferenza

Quindi io, per dimostrare una tragedia vera, devo usare immagini false? Sono autorizzato, anzi è auspicabile? 

Falso. Vero. Tutto insieme, con una tale indifferenza, che non mi fa solo male: mi incute timore per la direzione che sta prendendo questo mondo ricco di informazioni, sparse così confusamente da calzare a pennello con verità precostituite.

Dal Medioevo con prudenza

Non posso nascondere un senso di frustrazione e impotenza come persona e come giornalista. Come persona, perché in realtà l'importanza delle fonti mi è stata inculcata molto tempo addietro, dalla scuola e dall'università. Storia della filosofia medievale, mi ricordo all'Università Cattolica un'intera lezione su questo fronte.

L'ho anche esplorato nella mia piccola vita di ricerca. Ad esempio, sono una studiosa dei Plantageneti: da Eleonora di Aquitania in giù. Tutti inchinati davanti a Riccardo Cuor di Leone, di leggenda in leggenda (e anche di fumetto in fumetto), mentre Giovanni Senza Terra era il crudele e incapace. Come se la crudeltà fosse una caratteristica esclusiva del principe eternamente ultimo o eterno secondo (ne ho trattato nel mio libro L'importanza di essere secondi, edito da Nomos). Ci sono voluti secoli e attenzione a fonti differenti per mettere in crisi parziale questo impianto.

Le fonti vanno studiate tutte. Le fonti, non sono tutte uguali. Sembra una contraddizione. Ma le fonti vanno coltivate con l'acqua del dubbio e sboccia il discernimento. 

L'uguale credito e l'epilogo

Corro avanti, forse troppo, rispetto ai secoli tutt'altro che bui del bistrattato Medioevo. Gli anni oscuri del terrorismo in Italia, il mio tormento è sempre lo stesso: immagino se i giornali avessero dato uguale credito ai terroristi e allo Stato (anzi magari un po' di più ai primi), come sarebbe stata la narrazione. Ma soprattutto: quale sarebbe stato l'epilogo?

E qual era l'epilogo che sognavo, ma non in maniera ingenua, sul Medio Oriente oltre vent'anni fa? Quando grazie ad Angelica Calò Livné e al teatro di Beresheet LaShalom con i ragazzi ebrei, musulmani e cristiani, vedevo fiorire prove di pace capaci di mettere in fuga l'urlo della violenza?

Oggi, se non mi lascio andare alla disperazione, è ancora una volta grazie a lei. Ad Angelica in Israele, all'amica palestinese Samar, alle tante donne coraggiose che ascolto accanto a loro. 

Ho molto pudore a condividere notizie sul dramma che sta scuotendo due popoli, non solo perché cerco sempre di dedicare tempo al controllo, ma perché a volte anche una parola in un contesto giusto può provocare un dolore. E si sta soffrendo già troppo.

Tutt'attorno a me, però, non è così. Vedo calare sulle piattaforme e sui cuori implacabili giudizi, tanto livore, slogan allucinanti che invece di avvicinare due popoli li vogliono nemici per sempre.

Ripenso a quando ho cominciato a fare la giornalista, senza computer, senza un mare di informazioni a cui attingere; avverto la fatica nel reperire dettagli attendibili in quelle condizioni: adesso mi sembra un'operazione in scioltezza, quella che affrontavo in quegli anni. Mi schiaccia molto di più oggi, questa tempesta di notizie, scritte senza dubbi e con l'ombra di una sceneggiatura perfetta, in cui affondano subito artigli e denti famelici seminatori di odio. 

Quella fatica mi appare come un gioiello che abbiamo perso, spero non per sempre. Io provo ad accarezzarla ancora, fino a quando farò anche questo mestiere e fino a quando vivrò, e a non lasciarmi opprimere da questo clima di odio seminato da chi parla di pace ma "dimentica" un popolo. Spesso fallisco, ma quando ci riesco invece è grazie alle donne di Luce che nonostante le ferite mi spingono a guardare avanti. 

Con gli occhi a volte doloranti per le lacrime, ma non annebbiati dalle false certezze.

La fatica sarà perduta, e così i dubbi, e molto altro. Non può esserlo, del tutto, l'amore.

mercoledì 6 agosto 2025

Tutto ciò che non sapevo fare (ora possibile, anzi necessario)

 

Il disegno non fa per me: me lo sono sentita dire, me lo sono detta, dai primi pennelli o pastelli in mano, fino a scuola e oltre. Per forza: perché mi misuravo. Avevo un padre che disegnava in modo impeccabile e arguto; mia madre non sa cosa significhi andare oltre un bordo mezzo millimetro nel colorare mentre io lo faccio immancabilmente. 

Un disastro, la scultrice. Con la plastilina, evocavo mostri neanche spaventosi, goffi e un po' sciocchini, mentre papà, a ogni età, ci faceva capolavori. Il ricamo, lo rinfaccio ancora come lavoro forzato alle suore dell'oratorio quasi quanto "sbucciare" le uova sode all'asilo: nel secondo compito, sono quasi brava per forza e per amore, al primo ho detto allora addio. Nella casa paterna, tutte erano regine di lana e uncinetto: io ho creato masse informi fino alla resa.

Ho procurato anche un solenne spavento il primo giorno di scuola a mamma, quando vide che non scrivevo seguendo le righe, ma partivo da un punto e schizzavo a un altro. Non ci avrebbe mai creduto, a un mio futuro di scrittura, focalizzandosi sul mezzo: per fortuna, una salvezza che mi ha trasmesso proprio lei è la tastiera, prima della macchina da scrivere, poi mi sono impadronita facilmente del computer.

Non fanno per me, un sacco di cose, e me le sono precluse. Dove non potevo fare bene, con la certezza di un verdetto che mi schiacciava, mi sono ritratta per decenza. Non è stato facile, perché io sono curiosa per natura. Mi piace esplorare di tutto e questo mi fa anche perdere l'intensità di una strada, avendo energie umane. Potevo andare avanti a studiare il pianoforte, ma avrei tolto tempo ad altre esplorazioni. La mia chitarra mi ha sempre guardata in cagnesco: non è perché non sarai mai Jimmy Page, Eddie Van Halen o Joe Perry, che mi lascerai in preda alla polvere.

L'elenco è lungo, lunghissimo, ma grazie a Manuela Carnini, sono tornata a meditare sul disegno. L'ho fatto, per un crocevia di circostanze nelle medesime ore. Una bellissima, l'apertura di Casa Fridami e le opere piene di vita di Manuela, del suo talento profondo dell'anima, affiorato per diffondere una luce di cui in tanti abbiamo bisogno. L'altra, carica di tristezza, la morte di mio zio: un lutto che non potevo gridare, tanto non mi voleva o poteva ascoltare nessuno. Allora, ho lasciato perdere le matite che ho affidato a mamma per i suoi compiti e mi sono presa una confezione di pastelli. Di loro, mi piace la fusione tra morbidezza e decisione.

Quel giorno, ho cercato di esprimere così ciò che provavo, con la partenza dello zio dai nomi belli - come molti di quelli trasmessi dalla bisnonna lettrice - con le nostre lentiggini e i nostri occhi chiari, la passione comune per la musica espressa in maniere differenti. È un mondo che si chiude per sempre, in me, e non ho a chi dirlo veramente.

Ho provato a dire a me. Da allora, ho sfogliato pagine bianche e le ho riempite di colori. È stato importante capire che non bisogna per forza essere "bravi", ovvero obbedire a standard, parametri, paragoni. Che ogni cosa ci esprime per come la facciamo, noi e solo noi.

Tutto ciò che non sapevo fare, è diventato via via possibile. Anzi necessario. 

mercoledì 23 luglio 2025

Quando Ozzy mi ricordò mio papà (grazie a Bon Jovi)

 

In questa tempesta di commozione, con parallela scia di solidi idioti in trappola nei propri giudizi, mi ha elettrizzata un folle ricordo.

Negli anni ottanta ho vago ricordo di un articolo sullo stop di Ozzy Osbourne alla figlia Kelly sull’ascolto di Bon Jovi, ossessivo quindi pericoloso,

Io scuotevo via questo pensiero, ma in fondo ne condividevo un altro, soddisfatto: mio papà avrebbe tanto voluto vietarmi uno dei miei chiassosi album metallari. Ma forse temeva che mi avrebbe rafforzato. 

Allora, piango ma sorrido anche pensando quando Ozzy mi ricordò un po’ mio papà.


domenica 13 luglio 2025

Ciò che non si può non riconoscere della pioggia

 

Al suo primo parlottare, non l’avevamo riconosciuta. Muta da troppo tempo, a maggior ragione nella sua versione morbida d’estate.

Forse qualcuno trascinava un carrello o svuotava un catino di pensieri. 

Poi, ci ha trovati il suo profumo, con tutte le sfumature di ricordi, i giochi trattenuti nelle stanze, le scuse per uscire a respirarla tra gli alberi, voli di uccelli tra gioia e ripari. 

Quello che non possiamo non riconoscere della sua pioggia, è l’anima.

sabato 12 luglio 2025

Sarà un tocco di fisarmonica o un soffio leggero (ciao zio)

 



                                    Lo zio Dante Galli con mia madre Carla e sotto con Gipo Calloni


Gli occhi che si increspavano di malinconia quando viaggiavi indietro nel tempo o che si accendevano al balenare dei ricordi della Pro Patria. Come quando conversavi con Gipo Calloni nove anni fa, alla festa degli ottant'anni di mamma. Vi creai una torta comune, perché tu eri nato lo stesso giorno un esatto anno dopo: non volevo commettere ingiustizie, prima di tutto alla nonna Argia che vi aveva messi alla luce con ostentata precisione. Così uguali e così differenti, tu ragazzino vivace, mia mamma Carla fin troppo obbediente. 

È strano percorrere un lungo, lunghissimo percorso insieme, eppure alla fine portare dentro più sensazioni che parole. Quelle sopra menzionate, ma anche la tua emozione quando vedevi il mio pianoforte e ti ricordavi l'amata fisarmonica. Potevo scrivere 100mila articoli all'anno, ma gli unici che ti importavano erano quelli che leggevi al circolo con gli altri tifosi tigrotti.

E quella volta che all'ospedale quando sono nate le tue nipotine, ti dichiarasti bustocco davanti a un politico lì perché a sua volta diventato nonno.

Ma come zio, tu sei di Solbiate Olona.

Sì, è vero, ma quando procedi negli anni, conservi nel cuore come un talismano la tua infanzia, la tua adolescenza, e quelle scorrevano ancora lì, nei palazzi del Bustese.

Sei scivolato via così, senza che potessi salutarti: del resto, la zia Franca ti aspettava da troppo tempo. È tempo di riposarsi, dopo una vita di lavoro, e di riabbracciare tutti i tuoi cari lassù. Non dimenticarti, però, - tu che tutti i giorni scambiavi un saluto con tua sorella Carla - che lei ha tanto, tanto bisogno di sentirti ancora. Sarà un tocco di fisarmonica o un soffio leggero, ma al suo fianco resta sempre come tutte in quelle foto scattate insieme, per rendere ancora più orgogliosa nonna Argia dei suoi tesori.


venerdì 11 luglio 2025

Roma, trent'anni fa. La fatica, l'incoscienza e quell'esame di Stato che significava molto di più

 


Potrebbe sembrare un libro di Dumas, dilatato, trent’anni dopo. È invece solo qualche pagina di vita, strappata, ricucita, riletta, anche sofferta ma non rimangiata. Dopo l’esame scritto di aprile, il ritorno a Roma per il rovente orale del 12 luglio lungo il Tevere.


Faceva caldo, peggio del 38 luglio (cit) e un funzionavo poeta mi mostrava i suoi libri. Come allo scritto, trovai al mio fianco tra i colleghi d'esame Veltroni. 


Io volevo farcela, certo, ma non posso nascondere che un mio pensiero ricorrente era: se finisco presto, posso correre con mia madre al ristorante dell'albergo, quello dove mi avevano assicurato che spesso si recava Giannini, come pure altri giocatori della Roma. Un pizzico di incoscienza, aiuta a superare l'esame.


Del Principe, neanche l'ombra: i camerieri però mi attendevano con trepidazione per festeggiare.


Com'è andata?


Giornalista professionista. Come, Giannini non c'è?


Non è che io fossi indifferente. Ormai lavoravo da almeno sette anni, da quando ero ancora immersa nell’università; avevo cominciato sulle riviste di Milano, quindi al quotidiano. Avevo incontrato signori (no, minuscolo, qui il calcio non c'entra) e bastardi, un viatico della vita tanto impeccabile quanto da me inascoltato. 


Era un traguardo per me e per molti altri. Per mio padre e mia madre: lui aveva finto di scoraggiarmi e non crederci, ma gli occhi brillavano a ogni articolo. Mamma era anche più carica, perché trovava tutti i refusi ed era una soddisfazione non di minore entità.


E poi c'era Luca. Non poi, prima. Senza di lui, probabilmente i bastardi avrebbero vinto, perché non ero abbastanza forte da sola: nessuno lo è. Luca, morto nel cuore della primavera, senza nemmeno potergli dire che avevo superato il primo round degli esami. Che lo dovevo anche a lui.


Penso a tutti coloro che mi hanno guidata, a modo loro, verso quel traguardo. Al mio primo direttore, Mino Durand; a Gigi Gervasutti che mi sottopose con rapidità non frettolosa il contratto di articolo 1. A Roberto Ferrario, sempre (e chi scorderà mai vent'anni e passa dopo la prima pagina del giornale che ormai avevo lasciato, con la foto della copertina del mio libro d'esordio con papà, l'immagine del nonno in prima pagina). A Gianni Fusetti, che mi insegnò tanto nel lavoro e nella vita. Ad Antonio Porro, che mi forgiò nella cronaca a ogni ora con strumenti tecnologici zero. A Mauro Gavinelli, alla mia "Thelma" Nicoletta Bagliano, ai colleghi con i quali l'amicizia andava oltre il pressante tempo condiviso.


Il 12 luglio 1995 faceva caldissimo per me,, le domande erano impraticabili, mi sfiancava la fatica degli ultimi anni e io volevo uscire di lì. Ma senza insofferenza, perché Roma era casa.


Quando scappai fuori e mi diressi verso l'albergo, avvertii la gioia del traguardo superato, ma anche la sua inconsistenza. Perché incredibilmente, non ero sicura di voler diventare giornalista. Adesso che avevo tanto lottato, ma che avevo anche le prime cicatrici, tutta la mia incertezza cresceva e sarebbe poi dilagata.


Giornalista professionista, che cosa vuoi che importi a questo mondo dove ognuno è ciò che appare: ieri come oggi, solo con strumenti diversi. Che cosa vuoi che importi a me, ferita da 15 anni di cronaca prima e poi altrettanti di economia.


Di quei giorni, forse, invidio solo quel pizzico di sana incoscienza, di dover fare sul serio eppure correre a cercare i giocatori della Roma.


Oggi mi è indifferente pure il calcio, sgonfiato dopo essere stato punto dall'ago della consapevolezza: la sua vanagloria, gli slogan vuoti quando non belligeranti come se di guerra non ce non fosse abbastanza (e vera, non solo quella per cui si scende in piazza con slogan incoerenti), gli eccessi che rimbalzano sui tatuaggi. 


Oggi, mi sono indifferenti molte cose, perché alcune contano tantissimo.


Quel 12 luglio significa molto più di una formalità, un esame di stato per scrivere "professionista" su un tesserino di cui poi tanti si sarebbero fregati.


Significa porsi dubbi, interrogarsi su ciò che è giusto, non affrettarsi a scrivere la prima cosa incuranti di tutto, stare male. Sì, stare male, quando una storia ti scava dentro e non riesci a fuggirne, quando sbagli ferendo o ti rileggi e ti ritrovi accondiscendente come non volevi essere, quando non ti fai capire e molto altro. Quando pensi che devi aiutare a costruire un futuro per questo mestiere e vedi che nonostante i tuoi sforzi, dalle responsabilità troppi oggi fuggono: meglio lamentarsi, frignare e rifugiarsi in fragili comodità.


Ma un tesserino non esaurisce ciò che sei: lo guardo e so che posso fare qualsiasi cosa. E a qualsiasi cosa rinunciare, se non mi appartiene più. Tranne che a me stessa.


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