martedì 31 marzo 2020

È Qualcos’altro

Siamo riusciti a insinuarci in qualcos’altro alla tv, ieri sera. Un varco tra il vociare sul virus, la mente che scivola goffamente.

Mentre la notte si sta vestendo per andare via, cerco di pensare a cosa ho visto e avverto un vuoto. Poi mi scuoto: ma era Harry Potter, e mica una pagina qualsiasi ammesso che essa esista. Era quello squarcio finale, a cui non volevo credere, perché Snape era stato fin dall’inizio un personaggio accattivante per me, fino alla tentazione di crederlo dalla parte dei buoni. Ricordo il senso di sospensione fino al successivo romanzo, che con la sua sferzata di dolore mi ha consolata attraverso la certezza di aver intuito il bene.


Ecco, stamattina tutto ciò per qualche istante era scomparso. Era semplicemente qualcos’altro, qualcosa che ci aveva portato via da un periodo atroce e da un giorno di ennesima lotta contro il male. 

Diventava così Qualcos’altro: la certezza che se si è potuto intuire il bene in mezzo a tanto, doloroso sconquasso, esso riaffiorerà. 

Qualcos’altro a cui pensare, forse l’unica cosa che conta.

Lasciare accesa la luce

Come quando mio padre sopportava che io lasciassi accese le luci per notti intere, dopo aver visto un programma spaventoso alla tv.

Come quando ti coprivo gli occhi al balenare di quelle teste di mostri, nel primo film di Harry Potter, o parlavo sopra le bombe di un'altra pellicola per non farti capire cosa accadeva realmente.

Mentre gli anni si precipitano verso una meta apparentemente casuale, continuiamo ad avere paura, non per noi stessi, ma per i minuscoli esseri accanto: anche quando diventano sempre più grandi o quando lo erano, grandi, e ora diventano piccoli.

Oggi l'ho sentito più forte ancora, con una mamma preoccupata per la propria sorte, di fronte a quella della sua creatura cresciuta in fretta, e mai abbastanza.
È per la mia bimba.
Siamo sempre bambini, forse sempre genitori. Perché c'è qualcuno da proteggere e qualcuno che sopporta che non vogliamo spegnere la lampada per qualche notte. Solo che adesso sappiamo quanto sia inutile lasciare accesa la luce.

Che c'è un buio, che non si può cacciare via.


lunedì 30 marzo 2020

Volevo solo dire che amo il rock'n'roll

Se ero convinta di poter battere il maschilismo che qua e là (si fa per dire) albergava anche nel mondo del rock quarant'anni fa, un po' era dovuto a questa canzone.
I love rock'n'roll.
Joan Jett era la donna alla quale ispirarsi, da applaudire per la sua spontaneità, per quell'aria grintosa e serena allo stesso tempo. Io ero armata solo della mia tastiera, con la chitarra litigavo, eppure ero convinta che avrei trovato la band giusta.  Joan, poi l'ho scoperta pure vegetariana: simpatia totale.

Ma non avevo mai posato gli occhi sugli autori, né sulla storia di questa canzone. In queste ore Joan scrive un messaggio sui social: dice addio ad Alan Merrill. Fu lui, con Jake Hooker a scrivere e far esplodere quell'affermazione orgogliosa qualche anno prima, con gli Arrows.

Una canzone che non voleva dire niente di rivoluzionario o pazzesco, o forse sì.

Volevo solo dire che amo  il rock'n'roll.

Merrill se n'è andato in questi giorni tetri e c'entra il virus maledetto.

Ho provato a scoprire aspetti affascinanti della sua carriera. Ma dentro mi risuona la sua canzone, quella che pensavo tutta di Joan Jett da ragazzina, perché volevo fortissimamente che fosse così. Adesso, mi sembra ancora più bello che due uomini avessero creato una canzone e una donna fosse stata capace di trasformarla in un successo travolgente.

Una donna che oggi parla «con gratitudine e tristezza». E con poche parole bianche, vergate su uno sfondo nero come una giacca da rocker, augura «a safe journey to the other side».

Anche se i juke box sono spariti dalla canzone e dalla vita, si può sempre fermarsi e danzare mentre si viaggia verso un altro mondo, magari persino più rock.

domenica 29 marzo 2020

Come quando non volevo uscire

Il martellare della pioggia e del vento mi portano ad attraversare le mie vite. Come tutte le volte in cui non volevo uscire.

Perché c’era la tempesta imperfetta, fuori. E più spesso una furiosa dentro. Perché c’era Twin Peaks e  registrarlo non era la medesima cosa. Perché quel pomeriggio di sole o quella sera festaiola solo la musica avrebbe potuto curarmi. Perché a quelle serate in pizzeria si indossavano maschere più ingombranti di quelle attuali.

Sometimes I need some time on my own 

Quando non volevo uscire, sulla tela delle mie ragioni si disegnavano ottime ragioni.

Come quando non volevo uscire, e non sono tanto sicura di volerlo fare ora o poi.

Finché ho l'odore della pioggia

La strada vuota davanti a me: non nego a me stessa che a volte io la viva come una liberazione. Specialmente quando si annuncia la pioggia e la riempie di significati.

Poche, minuscole gocce che tamburellano la pelle in una musica leggera mi rammentano che non sono sola. Perché presto l'aria è intrisa di questo profumo, come una miscela di aromi già disciolti nell'acqua.

Nell'oscurità intanto, si fa fatica a distinguere le margherite, ma so che ci sono e questo conta.

Finché ho l'odore della pioggia, credo a tutto, anche al buio.

sabato 28 marzo 2020

Funamboli divisi

Questa alba dissolta nell’ora legale è confusa e si veste affrettatamente di grigio.

Più che le sentinelle l’aurora, aspettavamo.

Oggi è il giorno in cui Gesù resuscita l’amico Lazzaro, eppure quello che mi resta irrimediabilmente impresso è che sia scoppiato in pianto.

Solo chi ha ali attraversa questo principio di mattina. E se si ferma, tutto diventa umano per un attimo. Due piccioni su un filo dialogano o bisticciano: chi lo sa. Un colpo d’ali, un grido, una rivendicazione.

Mi sembra che stiano facendo il verso a noi, presunti padroni sulla Terra e ora dichiaratamente impotenti. Funamboli divisi, per un filo, siamo noi, mentre potremmo volare.

Le stelle negli occhi

Conosco troppe persone. Me lo ripeto, quando apprendo di un'altra croce sulla strada di questo virus che chiamiamo maledetto per prenderlo a pugni, in qualche modo.

Conosco troppe persone, è chiaro che la statistica mi inchiodi al dolore. Chi sta lottando, chi ha lottato e non lo fa più, non può: tutti sfilano implacabili nella testa. Ma anche chi non ho incontrato affatto, il familiare o l'amico dell'amico. E infine, non posso ignorare coloro che non ho conosciuto per niente e che i giornali mi offrono, abbracciati alla loro storia.

Conosco troppe persone. Agito la statistica, per allontanare questo bruciore all'anima.

In questi giorni, un uomo con il quale stavo parlando a un certo punto ha pianto: stava bene, ma doveva chiudere la sua azienda e aveva paura, come i suoi operai. Mi sentivo una giornalista dissennata, come se avessi frugato nella sua vita con quelle domande invasive che tanto ci dannano.

Ho provato a consolarlo, ma la voce mancava anche a me.

E poi arrivi qui, al bivio di un sabato smarrito. Ti dicono che un lottatore non ce l'ha fatta. Così lo descrivono e io ci credo.

L'ho conosciuto cinque mesi fa, in una delle mie giornate pazze che mi fanno viaggiare tra le storie. Mi mostrò tutto quello che aveva realizzato nella sua attività, ma c'era qualcosa che gli premeva di più raccontarmi: i suoi progetti. Quello che aveva fatto, lo deliziava e non gli bastava. Mentre parlava del futuro, aveva le stelle negli occhi.

E questo penso, da bambina: che chi ha le stelle negli occhi, chi arde per realizzare un futuro per sé e per gli altri, dovrebbe avere degli anticorpi, capaci di sconfiggere qualsiasi nemico. Anche un virus, che invece delle stelle negli occhi se ne frega.

Piccoli riti e una battuta

I piccoli riti vanno mantenuti, come promesse da sussurrare nel tempo. Una torta speciale, creata dal Lele e immortalata con la sua data, per l’anniversario di nozze.

Vi accosto la vostra foto, quel 28 marzo 1967. Mamma bellissima ed esile, tu che non mascheri la tensione con un sorriso birbante: ma quando finisce la cerimonia di nozze?

Fossi qui oggi, papà, saresti preoccupato, tantissimo per noi. Ma lotteresti a modo tuo per nasconderlo; con una battuta a mamma.

- Ti lamenti che devo restare a casa e io dal 1967 sono recluso con te.

Piccoli riti e una battuta, per vivere oltre la paura.

venerdì 27 marzo 2020

Troppo reale

Si scrivono storie senza cercare attori.

Loro, lavorano in mezzo al mondo e solo lei si può sottrarre. Allora cala un confine, schiacciante come un muro, per preservare i più fragili di casa.

La voce, unico e inestimabile pegno nello scorrere dei giorni, finché un’emergenza da risolvere  conduce lui in un luogo vicino a casa. E lei corre da lui, ovvero un metro da lui. Fino a quel momento ha pensato che un nodo le afferrerà la gola, vedendolo dopo quasi un mese.

Gli occhi sopra le mascherine si incontrano, ed è l’unica carezza possibile. Allora lei si rende conto che nessun nodo le afferra la gola, perché è come se l’avesse visto il giorno prima. E forse, è proprio così. Una sensazione, un bagliore come il lampeggiante dei carabinieri che si spostano silenziosi.

Così surreale doveva essere. Troppo reale,  come il dolore che ogni giorno si avvicina di più e non rispetta distanza alcuna.

Preghiera al buio

Penso che nel buio, quello autentico, che fa male, non puoi capire se sei solo o chi guida. Le apparenze si rincorrono sotto il velo più nero, ma una luce aspetta che tu finisca il cammino.

Penso che al buio vorrei abbracciarti o chiederti un consiglio, perché alla luce del sole l’orgoglio brucia.

Penso che al buio sono più capace di pregare, eppure non lo sono affatto.

Che questa umanità sia perduta, quasi quanto me. Che quando qualcuno ha scritto questo film, deve aver mischiato i fogli con le parti.

Penso che al buio ti voglio ancora più bene, e forse un pochino persino a me.

Preghiera al buio, mentre mi sforzo di seguirti con lo sguardo. E di non perdere me.

giovedì 26 marzo 2020

Non conto i giorni

Non conto i giorni di questa vita, una di quelle che ho incontrato quasi per caso. Forse sono loro a contare i miei gesti e pensieri, mi dico

Non so quanto sia trascorso, da quando sono entrata dove era giusto che io fossi. A fare ciò che dovevo.

Non conto i giorni perché non ho tempo, o forse perché non ha senso per me. Questa parte di esistenza senza tempo non può essere sottoposta a calcoli effimeri.

Del resto, tutta la nostra vita è una catena di secondi, in cui si impigliano tante intenzioni, buone e cattive che siano.

Non conto i giorni, mentre scompiglio i pensieri per metterli in ordine. Un gesto casuale  che mi libera, con tutta la sua vanità.

mercoledì 25 marzo 2020

La neve e i discorsi

Una spolverata, un bagliore che si placa subito ma non si fa soffiare via dall'indecisione di marzo.

La neve e i discorsi cambiano tutti veste: leggeri come i fiocchi, che non hai fatto nemmeno in tempo a vedere, volano sopra quelli sul virus.

Dicono che la neve faccia tornare bambini, eppure noi ci sentiamo oltre ancora. Come coloro ai quali è stata strappata un'infanzia innaturale e adesso possiamo giocare a essere adulti senza farci schiacciare.

La neve e i discorsi tornano ad accogliere lo stupore, per qualcosa che non attendiamo mai abbastanza e con un tocco sa soffiarci dentro un brivido.

Un po' stanchino, abbastanza per cambiare

Su queste mie giornate, si è posato tanto, tantissimo. Ma non potrei dire: si è accumulato. Com'era invece prima.

Arrivo esausta, non faccio tempo a rispondere a tutti, però se parlo con qualcuno, ci parlo davvero. Soprattutto, da quelli da cui imparo, e sono tantissimi. 

Non posso tuttavia affermare "si è accumulato", perché qualcosa sta cambiando, se già non è cambiato. So già che accadrà come a Forrest Gump: ecco, che peccato, quando le lezioni ti arrivavano da ogni angolo, anche un film te le stampava davanti e tu non assorbivi realmente niente.

Tu corri, corri, e ti seguono anche persone di cui ti rendi conto. Anzi, forse erano già davanti a te, forse te le stavi seguendo tu: una folla informe, da cui non ti staccavi. E forse, ciascuno la pensava come te o lo sta facendo adesso.

Perché i piedi si inchiodano a terra e tu lo devi dire a te stesso
sono un po' stanchino
Non vuol dire che non farai più nulla, ma che sarà diverso. Che invece di correre starai seduto su una panchina oppure camminerai dolcemente. O saltellerai, e altri ti crederanno folle.  La gente, questa massa informe, da cui non ti stacchi. Persino adesso, che dobbiamo rimanere isolati, o a distanza, vi siamo immersi per via della tecnologia. Ma come diceva la mia nonna:
E tì, tì se non, una genti? 
Sì, sono anch'io la gente. 

Ma sono un po' stanchina. So solo che non voglio correre più. Non voglio accumulare. Che sto vedendo e vivendo troppi cambiamenti. E più importante di tutto: che questi cambiamenti non sono ancora abbastanza, tanto più considerando il prezzo terribile che stiamo pagando. 

Così devo parlare, ancora. Ma con qualcuno che sta partecipando a una videoconferenza con 30 persone e mi confessa che si sta commuovendo. O getto fuori lo sguardo in cerca delle stelle, come mi hanno promesso Dante e Virgilio o un imprenditore poche ore fa.

Sono un po' stanchino, come Forrest Gump. È il momento perfetto per cambiare, tolte le scarpe da maratoneta che neanche mi calzavano bene.

martedì 24 marzo 2020

Incalcolabile l’anziano

Abbiamo misurato tutto, con una precisione diabolica. Neanche immersi nel dramma coronavirus, abbiamo perso il vizio.

Non vale tanto un anziano in questo tetro mondo, per un motivo: perché è incalcolabile. Non vale tanto una persona fragile, a qualsiasi età. Non abbiamo, non avevamo tempo di fermarci a cambiare metro di giudizio e adesso abbiamo troppa paura.

In questa furia calcolatrice, ripenso a una persona a me cara, ricoverata parecchi anni fa. L’ho conosciuta veramente lì, nonostante fosse un mio riferimento fin da bambina.

L’ho scoperta giorno dopo giorno, ne ho respirato il sorriso, ne ho ammirato la dignità nella differenza. E quando non parlava più ed era stretta nel suo corpo, i suoi occhi mi amavano più che mai. Un giorno dovevo prendere una decisione delicata e capii che dovevo chiedere consiglio a lei. Io che per contratto non lo domandavo mai a nessuno.

Il pollice nella mano: un sì una stretta, un no due. E il suo sì è risuonato così forte nei miei muscoli che l’ho sentito nell’aria.

Perché l’ho chiesto a lei? Perché sapevo che mi avrebbe detto la cosa giusta. Perché un anziano, un fragile spesso hanno un valore incalcolabile pari alla loro libertà. E forse perché noi non possiamo nemmeno sfiorarla, intrappolati in castelli di carta di credito, diciamo: ma sì, era un anziano.

La pietra che ci fa inciampare nei nostri calcoli. L’ultima roccia di cui disponiamo.



Senso di conservazione

In fila alla farmacia, un uomo intercetta un amico: «Hai dato la caccia alle mascherine?».

Con una mestizia sospetta, l’altro nega, ma il primo rincara la dose: «Io a casa ne ho fatto una bella scorta».

Poi starnutisce e io guardo con l’occhio per confermare un sospetto: la mascherina, non la indossa. Ne ha una scorta a casa, tuttavia.

Mi chiedo in quante cose ormai prevalga il senso di conservazione, a quello di autoconservazione. Un cumulo senza essere.

lunedì 23 marzo 2020

La radio ti porta a casa

Porto in radio i Motley Crue. Che emozione, che sopportazione anche dal mio collega radiofonico Giuseppe Battarino.

Da quando abbiamo iniziato insieme "Greenest Hits", ci siamo appassionati sempre più a questa sfida verde musicale su Radio Vivoeco 104. L'abbiamo fatto grazie anche Massimo Polizzotto e Benny Fucci, che sono i nostri angeli custodi.

Per noi, viaggiatori impenitenti è stato tanto difficile quanto spontaneo fermarci. Registrare insieme in radio era una delizia, un sogno coronato, ma abbiamo scoperto che eravamo #distantimauniti, per usare un hashtag bellissimo dello sport.

Potevamo davvero sintonizzarci e sincronizzarci nonostante le restrizioni imposte dalla lotta al coronavirus. Lunedì scorso ci siamo ritagliati una puntata dedicata proprio al tempo e alla casa che diventano due parametri di riferimento in questo periodo.

Solo oggi, riascoltando, ho capito con un brivido la bellezza di aver portato "Home Sweet Home" dei Motley. Una canzone che per me ha un significato profondo e ribelle, anche alle crudeltà che a volte presenta la vita. E adesso è come un abbraccio potente, come la porta di casa che si richiude non per soffocarti, bensì per dirti che hai trovato la strada.

Certo, siamo partiti con Lou Reed, in un giorno perfetto. E un giorno perfetto è bello anche concluderlo al mare, con Luca Carboni, come ha scelto Giuseppe.

Resta l'emozione un po' bambina di aver portato i miei Motley in radio, con la loro ballata folle che ho ascoltato nell'ultimo loro concerto (anche se già la decisione "risolutiva" è stata messa in discussione): mentre scorrevano tanti anni di vita, selvaggia e a suo modo dolce, con le voci e le energie graffiate, ma non il cuore.

Perché il cuore batte forte forte. Anche quando arrivi a casa, o forse soprattutto allora: quante volte ho cliccato su questa canzone, viaggiando verso la mia famiglia, volendola con tutta me stessa.

Perché sto tornando a casa, liberami.

La radio ti porta a casa. E ti aspetta, aspetta che il dolore di questi tempi si plachi mentre continua a scorrerti dentro la musica.  Distanti ma uniti.


domenica 22 marzo 2020

Il capitano e il dovere più forte

A Dundee tacciono le navi ora: su quella del capitano Scott e dei suoi uomini non sale più nessuno che possa ascoltare la loro storia. Anche lì è scattata la chiusura temporanea per l'emergenza coronavirus.

Forse anche per questo stasera ho voglia di posare un fiore. No, c'è un'altra ragione. In questi giorni in cui troppi uomini e donne cadono per il virus, avevo sentito parlare di "immunità di gregge" oltre la Manica, salvo cattive interpretazioni o ripensamenti perché ora scattano i provvedimenti pure lì.

Ciò mi ha fatto irrimediabilmente pensare al capitano Roberto Falcon Scott e alla sua missione in Antartide, come racconto ne "L'importanza di essere secondi". Questa è l'ultima settimana di vita per lui e due dei quattro compagni (Wilson e Bowers), di ritorno dal Polo Sud, 108 anni fa.

Mi dicono che nelle spedizioni estreme vige una regola: se qualcuno si fa male e ostacola il ritorno, va lasciato per tornare poi a provare a soccorrerlo. Se ancora sarà in vita.

Se invece ci si rallenta per prendersene cura con scarse possibilità, si assume un rischio troppo grosso: quello di soccombere, tutti. È semplificare, ma non è inesatto, pensare che questo è quanto accaduto in quell'occasione. Già con Edgar Evans erano sorti problemi, che poi portarono alla sua morte. Ma la sfida morale cruciale avviene con Lawrence Oates. Quest'ultimo, dopo il coraggio dimostrato, fu spesso indicato come emblema del coraggio britannico, mi chiedo però se i tre compagni non lo furono da meno.

Oates aveva i piedi congelati e stava sempre peggio. Per non frenare ulteriormente i compagni, rinunciò a scongelare gli arti inferiori, alla fine, perché almeno sentiva meno il dolore. Già questo rivela di lui quanto basta. Eppure no, non basta. Arriva ad esortare gli altri ad abbandonarlo, ma questi non vogliono sentir ragione. Tant'è che durante una bufera di neve, Lawrence prende questa decisione: si allontana, con la fatica del dolore, dicendo sbrigativamente che uscirà e non tornerà presto.

I am just going outside and may be some time

I compagni capiscono benissimo le intenzioni e tentano di dissuaderlo, invano. Oates non vuole impedire loro di salvarsi, sa benissimo che il rallentamento del ritorno è dovuto a lui.

Sì, Oates è uno splendido esempio di orgoglio britannico. Ma mi chiedo se Scott, Evans e Wilson non lo siano con la stessa intensità.

Potevano salvarsi, probabilmente; forse avrebbero dovuto. Eppure c'è un dovere più forte che chiama, quello di essere umani e di prendersi cura di tutti, a partire dal più fragile, costi quel che costi.

Questo cammino nel ghiaccio mi commuove ogni marzo, ma quest'anno assume un significato ancora più travolgente.

Penso a questo virus maledetto e a quella malefica espressione per cui si abbatte sui più fragili. Non è neanche vero - ci raccontano persino le fredde statistiche - ma lo fosse, ciò significherebbe solo un'altra cosa: che per quei fragili bisogna lottare ancora di più. Perché non possiamo lasciar indietro nessuno. Perché non c'è nemmeno qualcuno da cui correre per chiedere aiuto.

Il capitano Scott aveva un dovere, quello di riportare indietro i suoi uomini. Ha voluto salvarli tutti e paradossalmente non c'è riuscito, proprio perché non ha voluto salvare solo se stesso o parte della squadra.

Il dovere più forte, era restare umani. Per questo è un esempio di orgoglio umano, anzi una testimonianza.

sabato 21 marzo 2020

Voglia di contare le margherite

Stamattina una spolverata di pioggia ci ha  spinte fuori nella nostra minuscola area di movimento. Ma le prime luci l’avevano già portata via.

È rimasta una sferzata di aria fredda che all’inizio mi ha fatto piacere. Alla cagnolina, un po’ meno. Nei giorni già afosi ho implorato uno sguardo all’indietro, verso l’inverno, perché con la mascherina non ho uno splendido rapporto.

Adesso la mia tiepida felicità è evaporata subito. Sono davanti a casa con il cane per due minuti, ma basta meno per prendersi il mal di gola, mi dico. E mal di gola significa poi raffreddore, tosse, magari febbre. Tutto raggruppato in una parola: paura.

Così chiudo bene la giacca e metto pure il cappuccio per un motivo semplice: non voglio avere (più) paura.
Il suono dell’aria spegne altri rumori, da un’auto scende un signore e sale su un’altra vettura, penso che forse andranno a lavorare e che sarà per gli altri, in una fresca domenica mattina. Per combattere male e paura.


Adesso, prima di infilarci nella nostra tana, ci è venuta voglia di contare rapidamente le margherite. I loro brividi, no: ce li lasciamo indietro.

Quando l'incubo entra nel sogno

L'aspettavo al varco, anche se non me n'ero accorta. Ma la scorsa notte, l'incubo è entrato nel sogno. Un sogno qualsiasi, che non mi ha lasciato grandi indizi.

Sì, uno c'è, ma giusto per abitudine me lo ricordo: mi trovavo in una casa, grande e intrigante. Storicamente, sogno dimore di varia tipologia e dimensione, abitazioni in cui nella vita reale sono entrata. Ho scavato abbastanza dentro per darmi qualche risposta e destare anche più domande, se possibile.

La scorsa notte, però, un particolare era nitido al mio risveglio. Indossavo i guanti e prestavo estrema attenzione a ciò che toccavo.

I sogni nell'epoca dell'incubo coronavirus. Ma io riuscirò a mettere almeno loro al riparo. Me li riprenderò, in qualche modo.

venerdì 20 marzo 2020

Ci vorrebbe un invito di Francis Ford Coppola

Nella mia guerriglia quotidiana contro il suono degli elicotteri, cerco di placarmi con storie e ricordi. Uno di questi ultimi riesce a partire già con il sorriso.

Quindici anni fa, c'ero anch'io all'eliporto, in una scena così astratta che si presentò davanti ai nostri occhi. Francis Ford Coppola arrivava a Busto Arsizio per il festival del cinema e la raggiunse con l'elicottero. Per dargli benvenuto organizzarono un drappello d'accoglienza che potessero rievocare Apocalypse Now, un pugno di soldati con tanto di colonna sonora in sottofondo.

Non ho mai capito se Francis Ford Coppola abbia colto tutte queste suggestioni, ma il lodevole sforzo era andato in (eli)porto. Lui fu una gradevolissima presenza per tutta la manifestazione, tuttavia fu al finale che mi conquistò.

Quando qualcosa andò storto in un impianto audio e nel frattempo il presentatore ironizzava sulla città di provincia. Con la trasmissione tv interrotta e le riparazioni in corso, Coppola si alzò, un cenno al pianista e invitò una signora a danzare. Fu talmente ispiratore che Zucchero fece altrettanto immediatamente.

Il messaggio: voi continuate a lagnarvi, intanto io raddrizzo la serata.

Ci vorrebbe un invito di Francis Ford Coppola non a dirci che tutto andrà bene, ma a compiere un gesto gentile capace di smorzare la tensione mentre cerchiamo di riparare questo nostro mondo in frantumi.

Solo cinque minuti

Può esserci la routine o l'emergenza, ma un piccolo rito di normalità persiste. Lo osservo, con un certo conforto.

Ho bisogno di cinque minuti. Solo cinque minuti. Quando tutti sono sprofondati nel sonno, io accendo il pc. Un dito di whisky e la sigaretta che non fumo, il tempo è automaticamente calcolato così, credo.

Ogni tanto, entra sottovoce una canzone come a chiedere se ho bisogno di qualcosa.

Solo cinque minuti staccano i tempi della giornata e conciliano quelli della vita.

Solo cinque  minuti e sono viva.

giovedì 19 marzo 2020

La prima parola bella

Non si riversano parole nella quiete dell’alba, quasi avessero timore di essere scambiate per rumori.

Poi, tra cigolii di persiane e primi borbottii di mezzi della spazzatura, si sente una voce da lontano: grazie.

La prima parola bella, la prima traccia di umanità.

Agli angeli non serve la luce

Ha fatto bene il mio sindaco, come già altri avevano deciso, a chiudere i cimiteri. In queste settimane - che non so nemmeno quantificare più - dal primo decreto, mi sono imposta di non andarci e so quello che mi è costato. Ma ci sono regole da osservare e anche se per me  dire una preghiera davanti alla lapide di papà, è più importante di comprare il pane, vi ho rinunciato.

Questa battaglia contro il coronavirus è immane, spaventosa e lo è soprattutto per colpa nostra. Sappiamo sempre cosa fare, specialmente quando non sappiamo niente.  Ma non voglio unirmi al coro di invettive, di questo sbirciare sempre dentro le vite degli altri, sapendo ancora di più di quello che si ostenta a proposito di un virus maledetto.

È che stasera avevo un pensiero, una di quelle fitte che si insinuano e non sai come cacciarle via. Avevo cambiato il lumino a papà con uno provvisorio e chissà se funzionerà bene. L'idea di lasciarlo al buio, in un mondo già così oscuro, mi turba in queste notti dove il silenzio profondo e i rumori scardinanti convivono.

Lo so che è un'idea infantile, ma ci vuole una persona amica che già amici ha perso per questo virus, a scioglierla. Lei che andrebbe consolata, posa questo delicato promemoria sulla mia mente stanca.

Agli angeli, non serve la luce.

mercoledì 18 marzo 2020

I rumori in sorprendente armonia

Questa mattina anche l’équipe di uccellini ha proclamato sciopero e io, stanca del rumore notturno più detestato che non so più se sento davvero o nella mente, sostengo la loro causa.

Nel silenzio si fa strada il ticchettio del calorifero, così meccanico e umano, come se potesse anche riscaldare il cuore. Poi, sarà l’immaginazione questa volta amica, mi sembra di intercettare il canto del cuculo. Ciò mi riporta in montagna, quando da noi soggiornò una compagna di scuola, capace di perforare il mio sonno di sasso, con continui rumori di passi. La mattina mi confessò che aveva cercato l’orologio a cucù tormentoso per il suo riposo e si stupì quando le spiegai che non esisteva, piuttosto erano i cuculi in carne e ossa.

In quest’alba, invece, là cagnolina e io siamo salutate da una cornacchia, che si mostra anche come fiera del suo manto.

In cielo il parlottio degli elicotteri mi sembra ancora prepotente, ma invece di pensare alla morte una voce gentile mi suggerisce che si sta cercando di salvare una vita. Cerco di convincermi, infilando questo suono tra gli altri rumori, quelli sorprendentemente in armonia nelle loro differenze. Non ci riesco, ma almeno oggi non infilerò la testa sotto il cuscino.

O almeno credo.

Quel che è troppo

Che poi ci sei anche riuscita, in qualche maniera bizzarra o mezza sfatta, a gestire rumori e silenzi, notizie e vuoti.

Hai radunato le tue azioni così sconclusionate da indirizzarle a una parvenza di meta e hai costellato la giornata di razionalità, una tela rigorosa in cui fingevi di non vedere sfacciati squarci.

Poi la fila di bare, sui camion militari. I camion militari, così, non li vedevi da qualche vita: ti viene in mente il loro cammino in Grecia, quasi trent'anni fa, quando gli scioperi rendevano impossibile muoversi ad Atene.

Ma qui scioperano la vita, il destino, la giustizia, la pietà, tutti insieme.

E se già questo è troppo, neanche definibile, mi viene in mente un'altra cosa: che oggi ho quasi sgridato degli amici di mio padre, perché non adottavano le debite precauzioni. Per la seconda volta in due giorni, ho quasi alzato la voce con degli anziani. L'ho fatto per il loro bene, ma anche questo mi sembra troppo, troppo. Io che ero la ragazzina che arrossiva a un'ombra di rimprovero, e persino a un complimento...

Quel che è troppo, mi schiaccia contro la parete della notte.

martedì 17 marzo 2020

Riprendere il giorno

Con la complicità dei mici e dei pensieri, ho battuto l’alba. Ho messo in moto la macchina di casa, l’unica che posso avviare tra colazione e cure agli animali. recuperando lo svantaggio accumulato in questi svogliati passi di primavera.

Non è una gara, o meglio preferirei perderla. Le uniche albe operative di una vita precedente furono quelle di studentessa. Di giorno sognavo e scrivevo più che studiare, così aprivo i libri all’alba per recuperare, prima di precipitarmi al treno.

Poi ho trovato un lavoro che mi ha permesso almeno di realizzare un lato della mia personalità, perché mio padre mi aveva scattato la perfetta fotografia: nottambula. Davo il meglio di notte, scrivevo capitoli interi e ascoltavo musica. La mattina mi concedevo un’ora in più, i giornali avevano i loro ritmi sfasati sul mondo, eppure con una loro umanità. Andavo in redazione alle 10 e mi ricordo che se arrivava la telefonata del direttore prima di mezzogiorno, c’era il fuggi fuggi: era un raro e pessimo segnale.

Adesso non c’è mai un limite liberatorio, scorre tutto. Però all’alba penso tantissimo, anche quando i pensieri bruciano.

Stamattina battendo l’alba, è come se potessi riprendere il giorno, afferrarlo e dirgli: adesso ti raddrizzi come dico io.

Non ho ancora sentito un elicottero e se accadrà, infilerò la testa sotto il cuscino. Perché non so difendermi in altro modo da un suono che in questi tempi di guerra di trincea mi è insopportabile.

Eccolo... coraggiosamente lo faccio.

Ti salviamo, naturalmente

Non sono più una fissata di Harry Potter. Una che, pur avendo già "una certa" aspettava con ansia il nuovo libro dall'Inghilterra e nel frattempo si consolava con i film.

È che in questo maledetto periodo mi basta una sequenza per ribadire cosa manca.

Mica Harry e i suoi magici poteri, la sua sfrontatezza buona, quella fiducia per cui a volte lo strozzeresti. No, la risposta è racchiusa in questo scambio di battute alla comparsa dei suoi amici.

- Che cosa fate qui?

- Ti salviamo, naturalmente.

E tu hai bisogno questo, accidenti se lo sai, che un gruppo di amici, di compagni di monellerie, si presenti all'improvviso, magari affacciandosi alla finestra. Pronti al tuo stupore, a ricordarti la cosa più scontata (non banale) del mondo.

Ti salviamo, naturalmente.

lunedì 16 marzo 2020

L’abito scivolato a terra

La sera appoggio gli abiti sull’appendino speciale di papà, ma a volte sono impacciata e la mattina me ne ritrovo uno o più a terra.

Li osservo, prima di raccoglierli, e la notte in mezzo mi appare quella difficilmente calcolabile di adesso. Questi pezzi di tessuti che erano posati sulla pelle della mia vita precedente, mi narrano di cose per cui mi sono prodigata, accalorata, svuotata. Ripenso a ciò che ha costruito rapporti importanti, oppure effimeri, o ancora lì ha frantumati.

Adesso, in gran parte quegli abiti è come se li avesse indossati un’estranea. Devo confessarmi che ci sono cose che non mi mancano per niente, anzi sentivo già prima quanto c’entrassero poco con me.

Ma non riuscivo a togliermi quegli abiti, per fissazione modaiola o perché erano diventati costumi di scena, con l’aggravante che forse stringevo il copione di un altro.

Ora contemplo l’abito scivolato a terra, che non metterò più. Lo riporrò in un angolo dell’armadio, come una foto ufficiale tra quelle vere e scomposte, nell’album dei ricordi. Per ora, voglio gustare la brezza sulla pelle, anche quando procura brividi.



Gli angeli, come una corrente

Fuori dalla farmacia, incerti e a distanza aspettiamo la stessa notizia: che siano arrivate le mascherine.  Volti segnati da un’attesa più lunga, in fila, si passano la parola: non sono ancora arrivate. Ostinati, si entra comunque: una farmacista nel locale contiguo sta rispondendo a un rivolo di dubbi al  telefono.

Le mascherine vengono consegnate, seguendo le istruzioni di Murphy, quindi appena ti sei allontanato, e subito spariscono.

Pazienza, ti terrai quel che resta della tua, o un foulard: l’altra devi serbarla per la persona più cara al mondo, in caso di uscita d’emergenza.

 Ma poi senti un’amica che da due anni combatte  un male subdolo, pur non di nome coronavirus, e deve cavarsela da sola. Lei esce il meno possibile, senza una protezione, perché non l’ha mai trovata.

Allora ti viene in mente un battito di ali, anzi proprio lo senti, e ti rivolgi a qualcuno che può trovare una soluzione. Immediatamente lui risponde vai a coglierla al volo, finché ti senti dire: ma che cos’hai in volto, quella non va bene. Ed esce con una mascherina anche per te.

C’e un sole che commuove, fuori, mentre vai dalla tua amica e poi torni a casa. Finché senti un saggio (non si dice anziano), uno di quelli che sanno illuminare la vita e quando esce di casa, non ha una minima protezione: «Non si trovano, le mascherine».

E allora ci vuole ancora un angelo, bisogna individuare un’altra soluzione, anzi altre ancora per i volti feriti che incontrerai.

Gli angeli, come una corrente, attraversano la città.


venerdì 13 marzo 2020

La pioggia, una sirena amica

L’oscurità resiste stamattina, ma con gentilezza. Fuori, un canto leggero e poi più insistente senza invadenza spiega tutto.

È la pioggia, come una sirena. Nel tepore delle coperte, tu che sei fortunato a poterti rifugiare lì sotto,  suona irresistibile. Testarda e fiduciosa, anch’essa canta: io ci sono.

E ti chiama, finché tu impaziente scivoli fuori per la cagnolina. Pochi minuti e una carezza furtiva sotto il grande albero.

Mi vieni in mente tu, quando già non riuscivi a lavarti i capelli e lo facevo io. Scherzavamo anche in quelle circostanze, però a volte nell’asciugarti il capo fingevo di sbagliare e ti sfioravo con il braccio. Qualcuno lo chiama l’amore ruvido alla lombarda, quello che devi non mascherare bensì spogliare nella sua essenzialità.

Io oggi la chiamo carezza della pioggia, che ci ricorda che ci siamo. Mentre il virus fruga tra le nostre vite, una sirena amica canta con noi.

Gli occhiali e le certezze

Mi sono disabituata a uscire. Una conferma mi afferra alla gola un mattino, quando sono già fuori con la cagnolina e mi rendo conto di non aver infilato gli occhiali.

In casa li porto solo se scrivo o - miracolo - guardo la tv, quindi scivolano sul tavolo o in borsa. Ma quando devo andare fuori, prontamente li prendo per orientarmi in un mondo di difficile lettura.

Solo che ciò accade pochissimo in questo periodo di lotta comune al coronavirus e io non mi scordo solo la sensazione di uscire, bensì anche le abitudini che lo precedevano. Come piccoli riti, frantumati da una routine che  non ho scelto, ammesso che avessi scelto quella prima.

Ora eccomi qui, all'aperto: vedo solo pochi metri nitidamente, la luce grigia mi parla troppo in fretta e all'improvviso mi sento vulnerabile, colta da una vertigine. Come se un nemico potesse comparire e nuocermi, ancora più beffardo.

Infatti è così, potrebbe sbucare: solo che il nostro nemico è un virus invisibile, che dei miei occhiali - come delle nostre abitudini - si fa un baffo. Eppure, mi dico rientrando impacciata, i peggiori mali erano invisibili anche prima. Una volta in casa, rimetto subito gli occhiali e inseguo certezze nel cielo dalla finestra. Ma anche queste non si lasciano intrappolare da uno sguardo.

giovedì 12 marzo 2020

La luce, naturalmente

Quando apro gli occhi, il cielo è sempre meno buio. La luce arriva sempre prima. Naturalmente: sento quasi il sorriso del poeta Heine, che pur poi rese ancora più immortale la Lorelei, incantatrice sul Reno.

Perché sorprendermi, appunto: camminiamo verso la primavera. Ma in quest’epoca dove ci ha stravolto il coronavirus, ciò che è naturale ora quasi stupisce.

E mentre cerco di domare i pensieri, esce una bestiolina, in cucina. Una forbicina. Da piccola avevo il terrore di tutti gli insetti (non che ora io sia una ganza), ma lei mi spaventava in particolare. Infatti, nei racconti sussurrati nelle sere d’estate, un bimbo mi assicurò che in un campeggio una forbicina era entrata nell’orecchio di un ragazzo ed era penetrata fino al cervello.

Questo mi fece spostare nel cestino dei desideri l’opzione campeggio.

Però adesso è qui, in cucina, e afferro un pezzo di carta per portarla fuori, sul balcone. Sto per rallegrarmi del salvataggio, quando mi accorgo che lei mi è sfuggita, anzi devo averla pure ferita e lei scompare in un angolo irraggiungibile, forse a morire da sola.

La luce, naturalmente, osserva tutto e non racconta bugie per consolare.

La prima volta cadi sempre

In coda fuori dalla farmacia, i bambini hanno imparato bene la lezione dalla mamma.  Anche loro, infatti, osservano una distanza rigorosa dagli adulti che aspettano in una fila morbida e insolitamente ordinata.

Si sono piazzati vicino al muro, con delle biciclette. Confabulano, i due fratellini, poi il più grande spiega alcuni aspetti chiave di come cavarsela, in bici.

Il piccolo annuisce, un'ombra passa sul suo volto e allora il fratello maggiore gli fa una confidenza: «La prima volta, cadi sempre». Lo dice con leggerezza, quasi alzando le spalle.

Forse ha convinto il piccino a osare, a non farsi spaventare da quel primo incontro.

Di sicuro noi adulti adesso ci crediamo: la prima volta cadi sempre. Poi risali.

martedì 10 marzo 2020

L’infermiere sicuramente

Il suo fiore - una stella di Natale - compare da 12 anni sulla lapide di papà, quando si avvicinano le feste. Non può dimenticare l’uomo arguto del quale si era preso cura.

Ma neanche della sua famiglia. Così, quando il mondo aveva tanta fretta, io sapevo chi ci sarebbe stato.

L’infermiere. Colui che si è sentito parte della vita di colui che ha curato, tanto da non potersi scordare dei suoi cari.

Adesso giustamente li applaudiamo, eroi silenziosi con i medici nella lotta al coronavirus.

Ma io che in ogni momento un infermiere ti salva la vita, quando il mondo attorno ha sempre tanta fretta. L’infermiere, sicuramente.

lunedì 9 marzo 2020

Entra la bellezza

Quando pensi di non poter uscire a respirarla, ci pensa lei a venirti incontro. Entra la bellezza. Squarcia barriere senza ferire. Si insinua in angoli dimenticati. Si riversa sul tuo buongiorno e ci gioca un po’.

Non ti lascia mai solo, perché trova sempre un modo di far parte della tua vita.

Per chi è impossibile restare in casa

Quando il vento o la pioggia giocano con i pensieri, è più facile socchiudere gli occhi e cogliere la gioia di un tetto. Anche quando ti ordinano di stare lì.

Il piacere di essere a casa, coccolata da ogni sguardo, da ogni angolo. Un soprammobile ti ricorda un tuo caro e c'è quella poltrona dove si sedeva solo tuo papà: nessuno si lascia più scivolare lì.

È possibile stare a casa, se è per salvare i più fragili. E non sappiamo mai quanto fragili siamo anche noi.

Ma in questi giorni, navigando anche tra le lamentele e le disobbedienze, non posso non pensare a qualcun altro. A poche settimane fa, che ora mi sembrano così lontane: quando in stazione ho incontrato senzatetto in coda per una minestra, un maglione e soprattutto il calore degli uomini e donne dell'Unità di strada della Croce Rossa. 

Con sgomento mi chiedo: dove sono questi poveri? Vagano in un mondo che non li vede, se non per prendere le distanze.

Per chi è impossibile, veramente impossibile, restare in casa, infine l'ho trovato. Chi una casa, non ce l'ha.

domenica 8 marzo 2020

Chi vinceva a nascondino

Non ero una campionessa di nascondino, ma sono sempre stata osservatrice. Solo che come frequentemente accade, mettevo a fuoco più in là ciò che apprendevo sotto traccia.

Per anni, infatti, ho pensato che vincesse a nascondino, chi trovava il posto più figo dove infilarsi. Il più insolito, il più inafferrabile anche solo al pensiero.

Oggi, leggendo e scrivendo le cronache di coronavirus, sono stata colta da una minuscola intuizione: vinceva chi sapeva stare fermo. Chi era immobile. Chi non fiatava. Ti lanciavi in movimento solo quando l’avversario ti superava.

Ecco, oggi in cui mi sento fragile come una bambina, mi ripeto che dobbiamo solo fare questo: stare fermi. E mi sembra meno difficile.

Cos’è rinviabile

Nelle mie quattro o cinque vite ho rinviato gesti in maniera imperdonabile. Un saluto, una telefonata, un libro, una visita.

Su questo oggi meditavo leggendo un cartello in epoca di emergenza per tutti: rinviate il rinviabile. Quando avevo sì e no un anno di patente, mi ricordo che tornando da fuori città si ruppe il pedale del freno. Un tubicino sconosciuto, mi dissero poi: il pedale sprofondò senza che l’auto accennasse a fermarsi. Non so quale istinto mi spinse a tirare il freno a mano e l’auto frenò al rallentatore posandosi con bizzarra dolcezza sulla parte posteriore di una vettura ferma all’incrocio.

Rammento quella sensazione pazzesca, di volerti fermare e non riuscire come avresti desiderato.

A questo ripenso, di fronte alla nostra sbandierata incapacità in tempi di coronavirus. E penso anche a ciò che posso rinviare, alle baggianate che mi fanno correre. Ai gesti rinviabili e irrinunciabili.

Un doloroso ripasso di vita, quando la vita è minacciata.


sabato 7 marzo 2020

La responsabilità del bene

Camminando sotto il cielo e il suo sorriso delicato, ho pensato a cosa significa che andrà tutto bene. Dal Vangelo al canto di Bob Marley so che anche quegli uccellini che si lanciano nell’alba sono contati e amati.

Ma questa sfumatura rosa sopra la nostra zona rossa per via del coronavirus mi mostra un colore diverso del bene: è un dono, ma anche una responsabilità. Nella strada vuota e assonnata sento un rivolo di sogni, paure, speranza.

Sento prima di tutto che sono responsabile per me, la mia famiglia, i miei vicini e ciascuno di coloro che incontrerò, anche per caso.

La responsabilità del bene è un onere e una liberazione. Perché so che qualcun altro si sta prendendo cura di me. 

E quindi andrà tutto bene. Responsabilmente.

Più di quello che non potrò fare

Mi stavo preoccupando di quello che ora non potrò fare, finché non ho parlato con un papà che un tempo era forte come mi appariva il mio, e adesso è un nonno vacillante. Non nello spirito. O con una donna che invano cerca di nascondere i timori per il marito malato e per il nipotino febbricitante. E penso a una mia amica che osserva sempre il cielo da una finestra. E tanti altri ancora.

Quante cose mai possono fare gli altri, fragili nel loro silenzio. Contano di più delle poche che adesso, nella zona rossa, non potrò fare io.

Mentre una cosa posso fare: cercare di proteggerli.

venerdì 6 marzo 2020

Tenere le distanze

Tenere le distanze, è un gesto così insopportabile a noi così calorosi. Così pronti ad abbracciare o baciare, per gridare di essere vicini: a tendere la mano davvero, forse un po' meno.

In tempo di virus c'è tanto da imparare, che occorrerebbero due vite o più. A me viene in mente una signora inglese, sì, lo dico da innamorata della Scozia. Lei organizzò una festa impeccabile per il suo nipotino. Io mi rallegrai di aver trovato casualmente il garlic bread di cui andavo ghiotta. E apprezzai lo stile di un elegante allestimento giallo.

Solo più tardi scoprii che quel pane era stato preparato per me, proprio perché le avevano rivelato quanto io lo adorassi. E da quelle stesse persone aveva appreso che la consuocera adorava il giallo.

Lei non disse mai nulla, perché i gesti di vicinanza probabilmente non vanno narrati, o rivendicati: vengono posati silenziosamente come un fiore, giusto per far piacere.

Allora in questi tempi crudeli di coronavirus dobbiamo evitare il contatto fisico. Ma possiamo provare a essere più vicini, realmente.

Teniamo le distanze, siamo più vicini, davvero.

giovedì 5 marzo 2020

I tempi di un caffè

Non è semplice ricavare il tempo di un caffè: che brutto termine, ricavare, o forse solo onesto. Nel calcolo quotidiano, anche sotto pelle, un caffè tra due persone che pur si vogliono bene, sembra così arduo da piazzare.

Piazzare.

Poi arrivano questi tempi folli. Non è che tu abbia meno da fare, solo in modo diverso.

E la vita ha un sapore diverso, aspro e irresistibile, specialmente quando se ne va un nostro amico, senza dare un minimo preavviso: come se un preavviso ci potesse salvare dal dolore, è vero.

Ma magicamente, trovi il tempo di un caffè. Uno sguardo nello sguardo di chi ti sta a cuore. Spezzoni di ricordi di film lontani. Sorrisi per placare le lacrime.

I tempi di un caffè, sono questi. Assurdi, anormali, e così schietti da farci ritrovare, ancora. Quelli che buttano in aria ogni calcolo, anche sotto pelle, e ti fanno abbracciare un amico.

mercoledì 4 marzo 2020

Non abbassare la testa

Non si contano le ragioni, per non abbassare la testa davanti a un arrogante. Io ho deciso che ce n’è una ottima e sufficiente: accentua le rughe. E ci tengo alla pelle della mia anima.

martedì 3 marzo 2020

Le parole, senza vento

C’è un vento grigio che porta via le parole delle persone care, quando si è stufato di scompigliarle. E c’è un vento che te le riporta, le culla per una raffica di istanti e quindi se ne va.

Le parole, senza vento, ti fissano. Abbracciate in un enorme punto interrogativo, si lasciano scrutare. Perché tu le stai soppesando, ti chiedi se proprio quella parola voleva usare un tuo amico, se una battuta era una richiesta d’aiuto, se una frase rimasta a metà dovevi completarla tu. E te la prendi con le parole che non hai scritto, quasi quanto quelle che ora ti sembra di aver buttato a caso.

Le parole ti aspettano fuori, come fiori travestiti da bulli. E ti auguri che torni un vento di quelli voraci, ma intanto le stai stringendo, perché sono tutto ciò che restano.

lunedì 2 marzo 2020

Il tempo in tutto il resto

Quando ti esplodono sul volto lampi di consapevolezza, come flash avidi della tua identità, febbrilmente fai i conti che non devi.

Afferri cifre simboliche, le accumuli, dividi. E confrontandoti con chi sta cercando di ripararsi gli occhi come te, pensi al tempo. Alle persone preziose che hai trascurato, che non hai abbracciato abbastanza, che vorresti coccolare.

Poi pensi che in fondo la prima persona che trascuri, sei tu e allora ti viene da chiederti dove vada il tuo tempo. E la risposta è glaciale: in tutto il resto.

Il tuo tempo, scarso e dorato, scivola come sabbia su quella discesa informe di nome “tutto il resto”.

L’ordine sotto la pioggia

Mi era parso di fiutare un ordine sotto la pioggia, questa sera. Tutti noi a cercare riparo dalla tempesta di notizie, riuscivamo a scorgere lampi di senso.

Poi mi accorgo che quel fiume era solo un anticipo di lacrime, perché un amico se me andava. 

E tutto quest’ordine presagito veniva scardinato. Eppure io lo sento, sgraziato e reale: c’è un ordine che risuona sotto la pioggia. Lo manderei all’inferno, dritto dove mi sento.

Ma ci dev’essere un ordine sotto la pioggia o lo troverò.

domenica 1 marzo 2020

Fioriti per tempo

Ci sentiamo così, solidali con questi fiori che sono sbocciati già da settimane. Fioriti anzitempo, ci eravamo detti, guardandoli con tenerezza mista a compassione fuggevole.

Adesso sono ancora qui, ma non ne siamo convinti: il primo freddo li sta mordendo.

E ci sentiamo così, le nostre energie sapevano già di primavera. Avevamo migliaia di programmi e una brezza tiepida pareva intenzionata ad accarezzargli. Adesso, è sparita, rattrappita nel gelo dell'allarme virus, ma noi siamo ancora qui.

Le nostre energie come intrappolate in un inverno non convenzionale, eppure forse è questo: convenzionali, eravamo diventati noi. Convinti di sapere tutto, quando iniziare e quando smettere, quando chiedere e quando dare, adesso siamo qui con i nostri colori di cui sappiamo a malapena che farcene.

Non siamo fioriti anzitempo, il nostro tempo non lo scegliamo noi. Ma i nostri colori, sì.