giovedì 30 aprile 2020

La mia chiesa, aperta

È uno dei pochi luoghi che mi sembrano immensi proprio come percepivo da bambina. La mia chiesa. Ci sono cresciuta, mi sono ribellata, ho preso le distanze, ho sorriso e salutato. Ho portato i miei momenti di stanchezza, gli occhi che si socchiudevano al profumo dell'incenso.

La attraverso, vuota. Ora anche con le sedie riposte, come una speranza appena sussurrata: non le tolgo da qua, che magari potrò riaccogliere la mia gente.

E forse torneremo presto, tutti insieme; forse dovremo ancora pazientare.

Ma la mia chiesa è aperta ed è una benedizione che molti non hanno. 

Amo la mia chiesa in questi momenti, in cui tutto incontra la pace con un silenzio più forte. Mi rifugio dal Crocifisso e attorno non c'è più nessuno.

La mia chiesa, aperta. E persino quando la sfioro all’alba, con le porte ancora chiuse, sento che mi sta già accogliendo.

mercoledì 29 aprile 2020

La normalità cambia, tutti i giorni

La nuova normalità, un’espressione che mi inquieta, non so se vi percepisco un paradosso o presunzione. Non abbiamo ancora capito come sia andata in fumo, nel giro di pochi istanti, quella vecchia. Che poi era normalità forse per molti, non per tutti.

No, mi ribello al mio filosofare e comincio ad addestrarmi alla nuova normalità. Il signor X procede a passo agguerrito dieci minuti dopo l’alba, preciso come un cronometro va senz’altro a lavorare. Merli, cornacchie e piccioni hanno già dominato il mondo e ora, sazi se ne vanno. Tranne due piccioni che si azzuffano dentro la palma, per il posto su un ramo. E il giornalaio, che in questo periodo di isolamento, suonava venti minuti prima, adesso si sta avvicinando all’antico orario: sarà perché trova più traffico in motorino.

Ma oggi camminiamo più a fondo nella mattina. Così, il signor X si rivela un jogger che si esercita nelle vie del cantiere. Il giornalaio ha trovato coda, sì, ma dal panettiere. E i due piccioni hanno spostato cornice e perseverano nel piacere di litigare.

La normalità cambia, all’improvviso o tutti i giorni. Eppure quanto ci illudiamo di riconoscerla.

(non) ne so a metà. E anche meno

Come una forsennata, con una foga più forte della febbre, ho raccolto ogni indizio su questo virus. Le contraddizioni e le competizioni degli esperti mi facevano vacillare, ma poi tornavo in cerca di certezze.

Poi mi sono arenata, esaurita, ribellata. Quindi ho perso alcune puntate scientifiche rilevanti.

Tuttavia, quando ieri ho trovato il test sulla conoscenza effettiva del coronavirus, pubblicato su The Guardian, ho avvertito l'impulso di mettermi alla prova. Dai che forse prendo un bel voto e posso stare (più) tranquilla.

Invece, mi sono fermata a metà: 7 su 14. Al giornale britannico sono dei signori e l'hanno definito un risultato eccellente. Ma ho fatto i conti banali: ne so a metà. Anzi, meno perché in un paio di domande ho barato, o meglio tirato a indovinare.

Il quesito più seccante, tuttavia, è un altro. Dove ho risposto con sicurezza capace di sfociare nell'arroganza: la risposta reale era diversa e per un motivo semplice. Nel frattempo, gli scienziati avevano tratto una più fresca conclusione.

Insomma, ne so a metà, e anche meno. E anche meno posso parlarne.

Distanza lunare

Nel fitto buio dei pensieri veglia lei. So che è lontanissima, eppure è l'unica che sembra posare lo sguardo su di noi in questa notte. 

Forse in un mondo costretto alla distanza sociale, questa è la variazione sul tema che mi addolcisce. 

Distanza lunare: io ti appaio così lontano, ma ti sto dando tutta la mia luce. A distanza lunare chi ci ama, anche quando qualcuno è partito e non può tornare con alcun modulo di certificazione. Forse, perché non ne ha bisogno.





martedì 28 aprile 2020

Eco di settembre

Da qualche giorno mi attraversa un’impressione che solo ora so mettere a fuoco: come l’eco di settembre.

Quel settembre che sbirciava dentro l’ultimo scorcio di lentezza agostana. Avrei dovuto lasciare la collina e nell’era adolescenziale ciò profumava di sollievo e insieme malinconia.

Si caricavano le prime auto verso le città, le case di vacanza si addormentavano mentre io avevo voglia di sognare ancora.

Ora, eco di settembre, sento il moto che cresce e non sai se tu sia pronta. Prima ti aspettavano certezze, anche pesanti per la tua visione ragazzina. Ora è tutto impalpabile, come l’anonimato garantito dai numeri. Fase 1, 2...

Sarà per questo che di colpo il sole invade la strada e tu non ci vedi più. Spaesata di fronte a un orizzonte che si apre, pur continui a camminare verso il settembre imprevedibile che si annuncia.


Ingiusto non abbracciarsi

Si può stare senza abbracci, parlano gli occhi, le risate soffocate dalla mascherina che per sicurezza copre anche le lacrime.

Quante persone abbracciamo davvero ogni giorno, quante di quelle che incontriamo lungo la nostra strada?

Mi nutro di questa razionalità a buon mercato, finché esco dalla chiesa e incontro un amico che invece si sta dirigendo lì. Ha grandi occhi buoni come sempre, ma sembrano ancora più puri sopra la mascherina: ha subìto un lutto insopportabile, ancora di più di questi tempi.

Nel porticato parliamo, a un metro di distanza e le parole mie sono così aride e raffazzonate che neanche me le ricordo. So solo che a un certo punto esclamo: è che dovrei abbracciarti, è impossibile e ingiusto non abbracciarsi.

Immersi in questo drammatico gioco di chi preserva chi, non ci muoviamo.

Quando ci separiamo, io lo sento ancora più forte: che è ingiusto non abbracciarsi.

Solo in quel momento ho compreso cosa significhi non poter dare un abbraccio, con la sua semplice immensità che copre il vuoto delle parole.

lunedì 27 aprile 2020

Sotto gli occhi 👀

Spoglia di certezze, non ho definizioni esaurienti, anzi nemmeno approssimative, per la famiglia. Quello che hai sempre sotto gli occhi, non lo vedi a lungo. Come può valere il contrario.

Una famiglia al primo sguardo, che abbraccia tutti. Ieri un caro amico mi ha mandato questa foto da Assisi, gli ho chiesto se potessi usarla. Lui ha acconsentito, rimanda - ha detto - a una bellezza più profonda, quella del buon Dio presente nelle creature e nella nostra storia. 

Quando ho visto questa foto, ho sentito un brivido di gratitudine. E dalla riconoscenza sono passata al riconoscere: eccola! Eppure io ad Assisi sono stata una volta sola, in un incredibile giorno di dicembre. Forse quella distesa rossa mi ha condotta ad altro di familiare: il grido di vita della valle, quando andavo dal nonno e primavera ed estate si sfidavano.

O forse c’è qualcosa di più familiare, qualcosa che ci connette a quel senso che non sappiamo esprimere e che quindi non abbiamo compreso. L’eco di un tomo di Gadamer all’università e ancora prima di insegnanti a noi alunni.

- Professore, ho capito ma non riesco a dirlo.
- allora, non l’hai compreso davvero.

Ci pensa la natura a dirlo senza esitazioni. Sotto gli occhi quella bellezza più profonda, un filo rosso che si offre alla vista e sparirà, per poi tornare o resterà manifestandosi in altro.

Ecco, io non so cosa dire sulla famiglia, per cui non l’ho capito. Ma quest’immagine la posa sotto i miei occhi. 


Cos'è l'oro


Sono rimasta quella creatura lì, solo che la torta devo tagliarla io. Credevo di aver osservato con sufficiente cura come procedere, ma devo essere stata sbadata una volta di troppo.

Forse perché si stava troppo bene lì, tra le tue braccia, papà. Anche quando si era distanti, anche quando lo si è, come ora.

Questo è il primo compleanno di questi dodici celebrati non abbastanza vicini, in cui non sono potuta venire a trovarti al cimitero. Non posso negare che mi sia sentita anche incavolata, che lo si sia ancora, come probabilmente saresti stato tu, perché un assembramento al camposanto non mi è mai pervenuto. Nemmeno il 2 novembre, perché in quei giorni non mi faccio vedere proprio a causa della folla.

Per me, il cimitero è pellegrinaggio in solitudine.

Mi viene in mente quando tu avevi il permesso speciale per entrare in auto, due giorni la settimana. Ingresso contingentato, guarda com'eravamo avanti. Eppure avevi un pudore tuo nell'usarlo, quel permesso. Quando lo facevi, parcheggiavi nello slargo sotto il colombario dei nonni. Non potevi procedere oltre, io salivo le scale e tu restavi lì a pregare.

Poi quel pudore è cresciuto. Ti portavo io e posteggiavo addirittura fuori dal cimitero, dovevo entrare io a salutare i nostri cari. Una volta mi sono soffermata un po' troppo, era primavera forse come adesso. Quando rientrai all'auto, tu avevi la testa appoggiata al finestrino, gli occhi chiusi e mi spaventai moltissimo. Tu allora apristi subito gli occhi: era uno scherzo dei nostri sciagurati, ma mica era finita lì, fieramente hai aggiunto.

- Stavo chiamando i vigili, perché avevi abbandonato un povero anziano sull'auto.


E chi era, quel povero anziano?

Oggi volevo venire al cimitero, costasse quel che costasse, e salutarti come facevi tu quando non potevi entrare: restare fuori, con una preghiera. Poi ho optato per andare nella chiesa che lentamente è diventata la nostra: è pure a soli 200 metri. Ho pensato che fosse più dolce farlo lì, dove ti ho detto anche addio.

Quando vengo dove riposi - mi viene da dire fingi di riposare, poiché sei un birbante - io compio tutti i riti che mi hai affidato, consapevolmente o no. Non solo la visita ai nonni, ma da ogni componente della famiglia, ogni amico. Mi mancano tutti ugualmente, dopo questi due mesi, però devo dire che una coppia speciale sono i prozii, quelli che ci affidò il nonno Giannino. Paolo ed Enrico morti giovanissimi, sepolti l'uno accanto all'altro, quando li lascio con una carezza, mi sembra che mi seguano dolcemente, come due guardie del corpo. E poi, loro sono vicini alla piccola Chiara e al campo degli angeli volati via subito.

Però lo so che stai borbottando. È il mio compleanno e guarda che discorsi tristi fai. Vivi! Non lo ha detto, non lo ripete la mamma di Chiara alla sua farfalla, tre volte?

Allora, tra i gesti di vita, ho preso la nostra torta. Di questi tempi, una conquista e devo dire grazie a Lele Magni, perché trovare le mandorle non era affatto scontato. Piccoli sacrifici, che mi ricordano da lontano i vostri grandi: tu me li hai sempre raccontati poco, come il nonno, non volevi affidarmi ricordi tristi. Le privazioni durante la guerra: per fortuna la bisnonna Maddalena aveva un negozio, per cui qualcosa in più si riusciva talvolta a mandar giù.

Cos'è l'oro. Trovare le mandorle per celebrarti. Il gesto di un amico. Tu che mi fai uno scherzo. Io che ti cerco e in qualche modo ti trovo. Perché sono una Lualdi testarda.

Il mio oro, sei tu.

domenica 26 aprile 2020

Profumando di pane

Poi stendono sul cielo certi panni grigi che riflettono l’asfalto tra di noi. Vago nell’alba mancata e anche in un giorno speciale come questo, tu non ci sei.

La pace in questi tempi malati diventa vuoto, mentre camminiamo fuori da una notte priva di sonno e direzioni. In questo perdersi, si posa ad un tratto il profumo del pane che esce dalla finestra del fornaio.

Basta un profumo così, per nascondere questo vuoto, almeno un poco. Adesso arriverà anche la tua torta e io proverò a sorridere.

Profumando di pane, riparto come se avessi una meta.

sabato 25 aprile 2020

Libera fermezza

Con l’alba scivolata via, scorgiamo l’amica gatta seduta in mezzo alla strada. Indossa un’aria risoluta,     come una dichiarazione di ribellione: se qualcuno si deve spostare, be’ quello non sono io.

La sua fermezza viene ripagata, a passare più vicini siamo noi e le porgiamo le dovute riverenze. Sul viale anche un merlo prova a compiere il medesimo gesto, non attenuato dalle esili zampette. Ma quando arriva un’auto solitaria, si alza in volo con prudente anticipo.

Infine, ci siamo noi, che vogliamo provare quella sensazione di non poter essere messi da parte da nessuno.

Io non mi sposto. Piantiamo le nostre zampe sull’asfalto silenzioso: attorno il vuoto e ci sembra di aver riguadagnato spazi strappati. Non vogliamo occupare nulla, questi spazi sono di tutti: vogliamo essere liberi.

Una libera fermezza, che vuole rimanere dentro di noi. Auguri

Ancora troppa polvere

Quando ci pizzica l'aria fresca e cortese, restiamo immobili per invitarla al gioco. Il deserto si accentua la sera, le stesse stelle si ritraggono inghiottite da silenzio e lampioni incerti, ma noi siamo ancora qui a respirare oltre ogni barriera.

Dentro di noi risuona questa libertà, con il suo suono sincero. E potremmo pensare che resterà con noi.

Eppure questa musica ci racconta anche ciò che ci manca oppure che è in eccesso.

C'è ancora troppa polvere, sulle nostre vite. Troppa polvere da scuotere via, perché il vento non è sufficiente a spostarla. Perché tocca a noi, non solo alle graffiate della vita.

Ancora troppa polvere a cui sottrarsi, con un movimento o una decisione.

venerdì 24 aprile 2020

Per cielo e per terra

Malgrado l’intrigante coperta stesa sul cielo, gli uccellini preferiscono il tappeto d’erba fresca. Stamattina sono più terreni che mai, come se sapessero che la loro accresciuta libertà possa ridimensionarsi a breve.

Con solidarietà, li accompagno a rispettosa distanza. Perché la distanza io l’ho imparata, almeno un poco, dalle creature del bosco. Una distanza che non teme, ma rispetta: che dà spazio e agio di incontrare. Che ti chiede il permesso in silenzio.

Posso stare qui vicino a te? O compiere un passo, ancora?

Per cielo e per terra ci avviciniamo e chiediamo all’altro e a noi stessi quanto possiamo fermarci prima di volare via.

Fermi come i muri

Quei duecento metri di relativa libertà cambiano volto più di quanto si voglia ammettere, quando sono tutto il tuo spazio. Incredibile poi che a un tratto mi conquistino per un elemento di fissità.

I muri. I manifesti mi raccontano che qualcosa si è spezzato e ciò che ne rimane, sembra quasi guardarci, più spaesato di noi. Per la prima volta scorgo la locandina di un film che non avevo mai visto: a quanto pare, mi aspetta invano da due mesi. Concerti inesplosi, feste rimaste sospese, locandine elettorali.

Persino un manifesto funebre mi ricorda un'altra vita: quella in cui potevi dire addio.

Fermi, anche i muri.

Fermi come i muri, non vogliamo essere. Non lo voglio, davvero. 

giovedì 23 aprile 2020

Il coraggio di una promessa

Fragole, un pegno del Sud, la primavera che già fruga nell’estate.

Fragole e la tua meticolosa preparazione, quando un pasto terminava con una promessa morbida.
E fragole sono le incursioni nei boschi, ma quelle erano minuscole e selvatiche: come le more, che però si confondevano nelle tinte ombreggianti del bosco. Loro invece, minuscole macchie rosse che richiamavano sfacciate con un mormorio.

La vita riacquista colore o anche solo il coraggio di una promessa.

Come un giardino curato

Troppe prove, le conto nei dolori del mondo attorno a me, perché oltre non riesco ad andare, e poi mi arrendo.

Rovi che si impennano sopra l’asfalto sono disperatamente in cerca di luce, come noi. Grovigli di pensieri come tracce di resistenza e un vuoto che non profuma di pace.

Poi, i miei occhi si posano su un giardino curato. Aveva dormito più a lungo dell’inverno, perché il suo custode non stava bene. Ora profuma di significato. Non perché il dolore sia passato, ma lui ha deciso di collaborare con la primavera.

Come un giardino curato, le nostre vite.

mercoledì 22 aprile 2020

Palline di luce

Il cellulare vibra già all’alba e nel manovrarlo una pallina di luce inizia a danzare sulla parete. Il micio la rincorre, prima fiero poi indispettito quando constata che fugge dalla sua presa.

Distrattamente proseguo il gioco involontario e con quell’odiosa superiorità umana lo prendo in giro un po’ per i suoi sforzi. Lui, che ogni giorno mi impartisce preziose lezioni di vita, perde tempo dietro palline senza corpo, luci effimere.

Il suo sguardo saggio mi frena. Mi ricorda quante palline di luce inseguo ogni giorno. Quanti luci effimere hanno ottenuto che io convulsamente mi muovessi alla ricerca del nulla.

martedì 21 aprile 2020

Mondi tornati al loro posto

Mondi che non mi mancano per niente: affiorano riflessi smunti da un passato dietro l'angolo. Li guardo per una manciata di istanti, come a dire: ci conosciamo?

Lo so, ci avevo dedicato tempo ed energie, sfinendomi pure. Adesso sono mondi che non mi mancano per niente, mi sembrano mondi tornati al loro posto. In attesa che lo faccia anch'io.

Chi legge dentro la maschera

Per una persona con la voce già tenacemente bassa, la maschera può rappresentare un'insidia.

Può alzare la voce?

Scusi, me lo dicono da una vita, ma io uso il volume che posso e a volte - lo ammetto per nulla reticente - che voglio.

Allora si scusano gli interlocutori, specialmente nei negozi, e un farmacista ha sospirato: poi non si vede nemmeno il movimento delle labbra.

È vero, un po' come nei messaggi scritti non si colgono le sfumature, le emozioni. Tutto è intrappolato in parole che stentano pure a uscire, soffocate da questa barriera.

Ma poi, quando ci troviamo a un bivio, uno di quelli dove la cagnolina punta inesorabilmente verso la direzione proibita, io le dico: no. E siccome di solito questo non basta, perché lei ci deve provare ancora, da contratto, faccio quella smorfia che la fa capitolare, generalmente.

Solo un impercettibile movimento delle labbra e immediatamente mi rimprovero: che scema, ho la maschera, lei non può vedere.

Invece, la cagnolina alza il musino e quasi annuisce, poi fa dietrofront.

C'è un'umanità che si copre il volto dell'anima, costretto da altri o se stesso. E c'è chi ti legge dentro la maschera, con rara umanità.

lunedì 20 aprile 2020

La pioggia e il nido nell’anima

Sì, suona come una trilogia della pioggia, un incontro che diventa ossessione. O forse lo stare in casa che offre protezione, provoca arsura all’anima.

Fatto sta che stamattina sei riuscita a stupirmi ancora. Nel deserto urbano il tuo canto fitto ci ha spinto a correre fuori non solo senza ombrello come è nostra consuetudine, ma senza neanche coprirsi con il cappuccio. Come una sirena che ci invitava a tuffarci nella vita, ma senza fregare nessuno.

Perché quando ho toccato i capelli sotto il grande pino, mi sono resa conto che non ero inzuppata. Nemmeno la cagnolina.

Come se tu fossi così parte di noi o ti sei annidata nella nostra anima, sussurrando un canto che deve restare solo dagli incubi. Sì, la pioggia che si crea il suo nido nell’anima.

Piove bene

Questa pioggia non mi esce dalla testa. Perché si è fatta decisa, ardita, semplicemente vera.

Quando la respiriamo nelle nostre contingentate uscite, siamo già in preda al suo fascino.

Così, quando rientriamo pochi minuti dopo e ci viene chiesto: piove tanto? Rispondiamo:

Piove bene.

Dentro, ridiamo felici di questa frase sensata. Piove, piove bene, con tutta la saggezza di un mondo che non si fa ribaltare. Un mondo che nutre le nostre speranze.

Perché piove, piove bene per noi.

domenica 19 aprile 2020

Prendere la rincorsa

L’alba si è rintanata sotto le coperte, anche se non piove più. Ma questo non destabilizza i merli  che stamattina sembrano ballare il tip tap. E si fanno più curiosi, quasi arditi, non fuggendo fino all’ultimo al nostro passaggio. Forse si sentono invincibili, sopra quel velo umido. Come accadeva che ci sentissimo noi.

La primavera  è rimasta abbracciata all’alba e poi mica farà la pigrona e non torna più. I merli confidano con il loro movimento frenetico che non dobbiamo già lasciarci andare a umane forme di vana nostalgia.

La primavera è tornata indietro, di qualche passo, ma per prendere la rincorsa. E così abbiamo l’occasione di fare noi.

Fortunatamente, la pioggia

Con un grido di liberazione, accogliamo quelle quattro gocce che poi si fanno insistenti.

Fortunatamente, la pioggia. Stavamo soffocando nei nostri pensieri, la terra arida come le nostre paure. La pioggia ha solo certezze, non importa se anche sgradevoli. A partire dalla legge di gravità: giù, senza la minima esitazione.

Picchia la terra, come per accarezzarla. E intanto le scappa una carezza anche per noi.

Fortunatamente, la pioggia.

Cogliere fiori, senza toccarli

Queste non sono tutte parole mie. Neanche la foto. Me le ha volute porgere un'anima speciale, che ha occhi per cogliere fiori senza toccarli. Peonie, gialle, mi spiega e le sono grata perché io sono un'innamorata della natura talmente ignara



Lei mi racconta che ha visto il fiore nel silenzio della via. E gli ha voluto bene.

Quest'ultima frase mi commuove, quanto la vista di una creatura così bella, appoggiata alla recinzione, come indecisa se attirare l'attenzione o no.


Cogliere fiori, senza toccarli, un piccolo prodigio di generosità. Lasciarli alla carezza di uno sguardo o di una mano che verranno. E poi confortare chi ogni giorno maneggia cassetti, con timorosa testardaggine.

In questi giorni scombinati e folli, anche questo è un filo d'ordine che la vita ancora dipingerà.

sabato 18 aprile 2020

Non puoi guardare (mentre stai contando)

I cortili non sono più vuoti: i bambini li hanno riscoperti, sommessamente, e sorvegliati dagli adulti, che si fanno anche un po' invadenti.

Li hanno riscoperti come i giochi e io mi soffermo a gustarne un po'. Persino l'amaro nascondino, quello in cui mi distinguevo per scarsa solerzia, adesso ha un gusto invitante.

C'è una bimba, però, che non l'ha capito bene o forse non lo vuole capire. Tocca a lei scandire i numeri, mentre gli altri cercano il proprio nascondiglio. Ma si gira, fa pasticci e viene redarguita, senza asprezza.

Un bambino le grida garbatamente:

Non puoi guardare, mentre stai contando.

E mentre la frase si disperde (e lei sbaglia, ancora), io mi domando come facciano i bambini, a saperne così spesso più di noi.

Noi che siamo di frequente immersi nella conta dei giorni, e così non guardiamo. Non guardiamo cosa ci ha portato fino a qui e a che cosa siamo condotti.

Smetterla di contare, consapevolmente, per poter ricominciare. Voltarsi e scoprire che qualcosa si è nascosto, ma forse è bene anche non trovarlo più. E invece noi ci siamo, giocosi e battaglieri.

venerdì 17 aprile 2020

Senz'oltre

Su un treno mi è parso di essere salita ieri, forse perché ne ho afferrati tanti in questi anni. E non mi chiedo quando prenderò il prossimo. Non importa.

Un’amica saggia ci ha chiesto di esprimere con una parola come ci sentiamo ora e io non ho scelto un aggettivo. Ho sentito che una parola si avvicinava e l’ho lasciata entrare, curiosa.

Oltre.

Mi sento oltre. Chiusa in casa senza confini. Reclusa non prigioniera. Perché c’è un oltre che mi ha già aperto la porta, pur non facendo le presentazioni.

Presto potremo essere senza molte cose: già qualche privazione, l’abbiamo assaggiata. Basta che non siamo senz’oltre.

Io, oltre, mi sento ancora.

L'energia tra i cocci

Tra i cocci ho camminato ancora di più in queste ore, vacillando alla domanda "come state?".

Finché ho incontrato dall'altra parte del filo (per usare una vecchia espressione, che pur mi piace per quel tenerci legati) qualcuno che sui cocci aveva camminato davvero. E me l'ha detto a metà telefonata, intrapresa su tutt'altro argomento.

Due settimane in una stanza a combattere il virus, lontano da casa, da ogni certezza. Sono trascorse poi tre settimane da quando è potuto uscire e io mi stupisco della voce.

Vigorosa, esplosiva, come se non trattenesse tutta l'energia per riprendersi la vita, ma la lasciasse fluire e anzi la condividesse.

L'energia tra i cocci, si trasforma in ali, generosa.

Poi parlo di primavera

Ci provo, a cacciar indietro un'aria troppo frizzante per i pensieri. Un foulard attorno al collo tradisce la paura di un brivido di troppo, ma intanto ho dimenticato la giacca nell'obbligata uscita pomeridiana. 

In questi giorni ho buttato fuori scampoli di tristezza, foglie secche che si erano annidate non so come. Di solito,  sto tanto attenta e le infilo nei cassetti, quelli chiusi a chiave. 
Ma sì, mi è scappato: fa troppo freddo per me.

Ma poi parlo di primavera. Anzi, la vedo, scorgo persino il mio fiore anche se appare distante, e non posso accarezzarlo. Se chiudo gli occhi, ha una luce irresistibile e non troverò mai stoffa che possa eguagliarlo. Che dico, anche se li tengo aperti.

Perché la bellezza mi chiama, con una scia di profumi più forte di ogni mascherina e di ogni virus, anche dell'anima.

Poi parlo di primavera. E non smetto più.

giovedì 16 aprile 2020

Arriva il mio amico

Arrivava carico di frutta e verdura, ma la sua gentilezza non faceva pesare quella consegna. Tutto sembrava tanto succulento quanto leggero.

 Lui, Michele, il servizio a domicilio lo faceva quando ancora non ci aveva pensato quasi nessuno. E all'occasione si presentava in bicicletta, quasi a rimarcare quanto fosse agile per lui farlo. Anche se non lo era affatto. Anche se quando hai un piccolo negozio, tutto è sulle spalle tue e della famiglia.

Quando parlava della sua frutta o te la mostrava, gli occhi gli brillavano. Quasi quanto narrava della sua Sicilia. E se tornava dalla sua isola, nella borsa faceva scivolare qualcos'altro: fantastici dolcetti, morbidi e preziosi.

Mia mamma non l'ha mai chiamato "il fruttivendolo". Per nome oppure con un sorriso fiero quando l'aspettava, diceva così: arriva il mio amico. Noi sapevamo allora che il Michele stava arrivando.

Un uomo che lavorava con gioia, una gioia da condividere, e che un giorno ha dovuto smettere per la sua e la nostra tristezza. E adesso che è volato via, noi lo sentiamo ancora così: come un amico che non faceva pesare mai i suoi sacrifici, ma amava prendersi cura della natura e degli altri.

mercoledì 15 aprile 2020

Sotto sotto Verdi

Sotto sotto, Verdi mi prende sempre per mano, senza ubriacarmi di certezze.

E quel cattivone di Attila ha incrinature che lo rendono così esaltante, oltre ogni marcia vittoriosa.

Sotto sotto, dalle storie di cui conosco il finale non riesco a schivare il dolore.

Sotto sotto, sono a teatro e sto ascoltando l’opera, senz’ansia di ritrovare il palco, perché sono sempre  rimasta qua.

Sotto sotto, ho ascoltato tutto, ma non mi è venuta voglia di parlare. Ascolto le ultime voci, perdersi per l’umanità.

martedì 14 aprile 2020

Disarman(t)i contro la morte

Anch’io ho smesso di guardare ogni conferenza stampa sui numeri di questo massacro, perché continua a essere un massacro. Mi procura un certo fastidio anche leggere le dichiarazioni poi.

C’è spesso un “solo” di troppo, una parola che non dovrebbe anticipare l’annuncio di una morte, figurarsi di centinaia. Una frase maldestra che strappa il cuore. Un’ombra di sorriso che strapperesti invece tu dal volto.

Sì è disarmati, a volte anche disarmanti di fronte alla morte.

Io la prima l’ho intravista a sei anni, quella della mia nonna, la più giovane, inchiodata a una vita di quarantena da molti anni per una malattia che allora non aveva cure. Aveva subìto già altri ricoveri nella sua vita. Durante l’ultimo,  ricordo che papà cercava di distrarmi. Io ero troppo piccola per comprendere, mi era chiaro solo che la mamma non era lì con me, ma in ospedale a curare la nonna che era stata bellissima e orgogliosa da giovane (per non parlare del nonno, che si stimava tutto) ma da tempo era così fragile: un’unica foto sul balcone di casa nostra me lo ricorda.

C’era un libro di storie divertenti da sfogliare e una delle ultime sere in cui mamma rientrò, io stavo ridendo. Non so se mi disse qualcosa, ma il suo sguardo stanco e ferito non mi lascio più. Al funerale noi bimbe venimmo sgridate perché troppo vivaci. Parola strana, quest’ultima, ma così bambina.

Mia nonna morì il 2 aprile, data che poi tutti avrebbero ricordato per il Papa. La assisteva un giovane dottore che oggi sta cercando di salvare gli anziani. Seguendo il desiderio della famiglia, la fecero tornare a casa una volta spirata, forzando per umanità le regole.

Il nonno vide tornare l’ambulanza quella notte, come tante altre volte, ma capì che era diverso, dal suo viaggio lento e silente. Pianse: «Era sempre tornata a casa».

Io non la capivo, la morte, forse non l’ho mai fatto veramente se non quando ho sentito correre via la vita dalle mani che stringevo. Forse nemmeno adesso.

Nella casa della nonna c’era una ragazzina più grande e bellissima che giocava con noi, ricci neri e un sorriso che inseguiva sogni. Io mi ricordo esattamente dov’ero quando se ne andò e quando vado dai nonni, passo tuttora a trovarla: sorride ancora così. Fu colpita dallo stesso male che mi ha inseguito fin da giovane donna, in forma maligna. Così qualcosa, qualcuno ha deciso che io potessi ancora qui, per una differenza che non so definire.

Neanche la morte, so definire.

Ma lei sì. Perché ripeteva una frase che ha il potere di dire tutto:io non voglio morire.

So che è un cassetto molto triste, ma forse prima di parlare alle conferenza stampa sull’andamento dell’epidemia - e noi di commentare- sarebbe meglio farci trovare meno disarmanti, visto che siamo già disarmati. Magari con un velo di pudore e compassione, mormorare, se non riusciamo a tacere.

Ricordare che non stiamo elencando decessi, ma parlando di persone che sarebbero dovute tornare a casa, così si aspettavano i loro cari nonostante la crudeltà del virus. Che non volevano morire.

Colma il vento

Con meno vigore, ma si bisticcia in coda, imbronciati per un'attesa che non torna. Mi sposto dall'altro lato della strada, con la mascherina che non soffoca i pensieri. Ci pensa l'urlo di un'ambulanza e la tensione che avevo visto poco prima, mi appare com'è: un vuoto.

Così mi convinco ancora che sto attraversando un film e provo a correre via, solo che il set mi sembra immenso.

Per fortuna, arriva il vento e alza la voce. Riempie tutto, goffo e maestoso, con le sue contraddizioni. 

Colma il vento, questo vuoto di ragioni che abbiamo ancora a metterci in mostra, a discutere, a recitare. Strappa via, rabbioso, quei fogli sgualciti che erano copioni o liste della spesa: non una grande differenza.

Colma tutto, il vento, ma non la distanza dalla tua voce. 

lunedì 13 aprile 2020

Piccoli poteri

Il profumo frizzante dell’erba accarezza anche sotto la mascherina.

Siamo qui fermi in un libro scritto da mani misteriose. Powerless, per dirla con una parola che sembra affermarsi sulle altre nel lungo post di Nikki Sixx. La mente corre dai Motley Crue agli Iron Maiden al grido intrappolato di Powerslave, il faraone che pensa di potere tutto ma è schiavo al potere della morte.

Ma intanto abbiamo piccoli poteri, che ci seguono per un tratto, anche per un secondo, come quello della gentilezza.

Fragili come l’erba, eppure come essa capaci di andare oltre quella nostra stessa impotenza.

Lo penso mentre nell’aria si insinua l’odore della sigaretta del fumatore mattiniero al balcone. Dalla sua casa escono due suoi coinquilini, diretti verso l’auto ed egli, dopo un vociare con loro, scivola via al mio saluto. Per un attimo, proprio mentre la strada si popola al massimo per i parametri di questi tempi, mi sento un po’ più sola. Arrivo al cancello che avevo appoggiato per rientrare subito e che invece ora è chiuso.

Tac. Magicamente si apre. Parlavano di me, che ero rimasta chiusa fuori, e aprirmi era più urgente di salutare.

Piccoli poteri che incrinano questa nostra impotenza di fronte a un male, entrato nelle nostre vite o che vi appartiene da sempre.


domenica 12 aprile 2020

Il coraggio, ogni giorno

Un anno, netto e incommensurabile. Un contributo di Facebook è ricordarti, anche visivamente, i fatti che hanno scandito la tua vita recente. Alcuni sono dimenticabili, altri costituiscono un riferimento da scolpire. Domani è un anniversario che appartiene alla seconda categoria.

Adesso inizio questo secondo giorno di festa nell’isolamento, rivedendo quella domenica traboccante di persone. Alla presentazione del libro di Lorenzo Pisani scorrevano parole, note, lacrime. Anche birre, se non sbaglio, o aperitivi, mi ricordano, perché bisogna anche abbracciarsi e sorridere. Quegli abbracci ci confortano fino ad oggi, in cui ne siamo privi.

Lorenzo ha avuto coraggio a scrivere il libro con il suo dolore, il suo, quello della moglie Pamy e di tutti coloro che gli vogliono bene. Come la voglia di battersi, che viene anche dalla musica. Mi ha obbligato ad avere il coraggio di aprirmi, nella prefazione e non solo.

Il coraggio, ogni giorno. Come quello che ha dimostrato la piccola Chiara, nei suoi pochi e immensi giorni. A proposito, in queste giornate vedo farfalle timide frugare nell’aria, forse esplorando i nostri cuori.

sabato 11 aprile 2020

Non giorni tutti uguali

Questi giorni che scorrevano in un solco diverso e disarmante, non sono stati uguali. Sono stati come un unico giorno, e hanno condotto fino a qui, un giorno unico.

Pasqua, che ci guarda dritto negli occhi, se possibile più che mai. L’alba si è affrettata a chiamarci, la strada è totalmente deserta, non un rumore, neanche l’auto solitaria del palazzo a fianco. Eppure c’è chi è già in moto, come il nostro infermiere che ci manda gli auguri.

Sto lavorando.

Pasqua è un giorno unico, dopo un unico giorno in cui ansie, lacerazioni, pianti e speranze hanno scritto una riga differente. Ma ciascuno di quei giorni aveva un titolo, un fine e Pasqua lo mette in ordine. Come se tutti i libri, appoggiati senza troppo pensarci su uno scaffale, fossero caduti e tu ora dovessi rimetterli a posto. Ognuno porta con se stesso una sensazione, una memoria.

Adesso ricominceranno  a scorrere i giorni e sarà ancora fatica, ma speriamo che sia alleviata da questo Giorno Unico, che ci ha guardato dentro negli occhi.

Il vuoto o la libertà

La celebrazione di stasera mi sospinge indietro di qualche mese. Nel mirabile scorcio di fine anno, di cui non sapevo, non so individuare un senso, se non come un flusso di energia che mi lambisce e sembra fuggire.

Il primo dicembre, traversata solitaria ad Assisi, mille chilometri e un soffio. Pochi giorni dopo sono a Roma per la presentazione di un libro, intenso. Prima ci accompagnano alla basilica di San Pietro che si sta svuotando e ci appare così strana. Tra poco, Papà Francesco inaugurerà il presepe e a noi viene offerta la possibilità di arrivare fino all’altare senza folla, poi di visitare altri luoghi in profondità.



Mi sembrava così bella, nel suo vuoto, San Pietro. Anche la piazza si placava.

Il déjá vu ha stentato a presentarsi due settimane fa, quando il Papa ha pregato in piazza: era un’immagine così potente da stordire.

Ma stasera l’ho rivista, San Pietro, e mi sono ritrovata lí. Poche persone e un assaggio di vuoto, che non è assenza. Ha il sapore di libertà, persino quando sembri schiacciato da qualcosa più grande di te. Troppo.

E Qualcuno, più grande di te, infinitamente, si china su di te. E ti sussurra un senso, che forse un giorno persino capirai. O magari non ti importerà più.

Buona Pasqua 

venerdì 10 aprile 2020

Come fosse una mattina

È troppo presto per tutto, tranne che per la vita. I merli conversano, fingendo di non notare la miciona appostata. Lei, invece, batte in ritirata allo scodinzolare del cane in arrivo. L’erba è più fresca delle carezze e tra poco le cornacchie diranno la loro, in questo assembramento libero.

Via l’umanità, le altre creature si sbilanciano o meglio ritrovano equilibrio.

Poi, passano tre ragazzi con zaino, in mascherina e bicicletta. Penso stiano portando cibo o vi si apprestino, ma è la prima volta che li vedo così presto. Il pensiero, in apparenza dissacrante, di tre Magi che devono pedalare, mandati da qualcun altro.

Forse siamo tutti mandati da qualcun altro e non abbiamo doni, ma fardelli, se non quel pedalare.

Come fosse una mattina, in cui inizia davvero qualcosa.

New York e lo sguardo sulla notte

Il vuoto insegue la città e le riempie di significati: alcuni dolorosi come la carta vetrata, altri si posano come carezze di conforto.

Dopo tanto penare e pensare sul mio Paese, mi avventuro fuori, anche verso i sogni tramontati. Perché New York era il mio sogno arrogante da bambina, arrampicarmi su un grattacielo e fregarmene delle vertigini della vita. Invece, il primo ricordo che ne ho, è l'odore: mi ricordo un aroma dolciastro che mi inseguì nelle prime ore e che poi se ne andò o cedetti all'abitudine.

Nei pochi viaggi lì, mi ricordo un albergo che apriva sguardi e cuore su uno slargo impensabile. Le altre volte, avevo avuto come visuale il palazzo a fianco, roba da soffocare; invece lì c'era una libertà di vagare irresistibile.

La notte, cadevo vittima di quel vuoto, perché in quella zona anche le auto placavano la loro corsa menefreghista e al limite sentivi le sirene, come in una canzone dei Motley Crue. Io, dovevo assolutamente tenere le tende, abbarbicate ai muri, spogliare le finestre del loro pudore e implorare me stessa di non dormire. Almeno, avere la certezza che in qualsiasi momento io avessi aperto gli occhi, avrei avuto lo sguardo senza barriere.

Quel vuoto così diverso da quello che ci descrivono ora. Era un vuoto innamorato della vita. Adesso le fosse comuni sono un pugno allo stomaco, come le bare di Bergamo sui camion militari.

Era già ferita, New York, quando la incontrai. Eppure la luce dell'alba arrivava, sfrontata, e reclamava  la sua parte di attenzione.

Adesso, lo sguardo si sofferma sulla notte ma non accetta di tirare le tende. Metti che l'aurora voglia entrare, ancora.

giovedì 9 aprile 2020

Il presente non è mai il futuro

Stasera studio filosofia. Lo faccio, lasciando il posto in prima fila a chi è più saggio, il micio.

Napoli milionaria. Non è finita la guerra e tanti fingono di sì, osano persino cantare. Un po' come noi quando pensiamo che un orologio farà scattare la sua lancetta dorata e saremo liberi di tornare al vuoto di prima.

Adda a passà a nuttata. 

C'era un mio amico veneto che detestava questa frase, si ribellava proprio. Ma un altro, napoletano, me l'ha spiegata stasera: «Significa che nonostante tutto finirà, perché il presente non è mai il futuro».

Ci penso e penso più vicino. Arrivo a lambire con lo sguardo il Duomo nel Giovedì Santo.
C’è qui una parola per voi, profeti in fuga dalla missione, profeti spaventati per l’ostinato desiderio di Dio di salvare la gente di Ninive, di salvare invece che punire, di salvare invece che distruggere.
A Milano ci assicurano questo: state scrivendo una storia della salvezza.

A Napoli mi dicono che il presente non è mai il futuro.

Nel mondo c'è una frase che scorre senza che la impariamo mai realmente, allora Napoli ci prova ancora a tradurre.

Chi primachi dopo, ognuno deve bussare alla porta dell'altro



mercoledì 8 aprile 2020

Stammi bene

A fatica hai assorbito le sofferenze dall'altra parte del mondo, dove tutto il male sembra cominciato, ed ecco sono già tue. Hai letto storie indescrivibili, se non in pennellate più maldestre di quando eri bambina, che ti seguono per una sorta di inerzia.

Poi quando pensi che ciò che hai sofferto sia un'ombra di quanto ti stanno narrando, si posa su di te una frase: stammi bene.

Scritta sussurrando su un messaggio, quasi un comando sospinto da una gentilezza che si può chiamare umanità.

Stammi bene, quello che tu non avevi osato dire ai tuoi amici in altre nazioni del mondo, che fino a poco tempo prima si preoccupavano per te e i tuoi cari: adesso il virus sta ferendo i loro Paesi.

Stammi bene, può dirlo solo chi è già passato nell'inferno e ha trovato un modo di sopravvivere. È nel futuro di chi è troppo piccolo per saperlo fare da solo, eppure traccia colori di speranza su fogli improvvisati in un mondo virtuale.

Stammi bene, l'ha detto proprio a me e forse è solo un modo di dire. Ma mi fa sentire che qualcuno non sta pensando a ciò che posso fare per lui, bensì a ciò che può fare per me.

Stammi bene, è la medicina in un'era malata di cui noi siamo i primi sintomi, finché si affaccia una frase cortese, che annulla le distanze nel pianeta quando pochi accanto a te ti sembrano vicino.

martedì 7 aprile 2020

Bastava una luna

Questa mattina cercavo la luna per salutarla, ma l’ho vista infilarsi timida tra i lampioni. O forse l’abbiamo cacciata lì noi.

Così tante lune abbiamo gettato nel nostro cielo, spesso chiacchierone, fino a non poterle più spegnere e  osservare ciò che ci bastava.

Perché ci bastava una luna, qualcosa di reale e lieve nella sua saggezza, qualcosa che c’era ben prima delle nostre illusioni. 

Ci bastava una luna e magari per questo ce ne siamo creati un’infinità: una era troppo per noi.

Ci basta ancora una luna, oggi più che mai.

L'umanità di una laurea a distanza

Mentre sto terminando un'intervista su tutt'altro argomento, apprendo che un giovane tra poche ore conquisterà la laurea magistrale. Una laurea strana, a distanza, come quelle che stanno avvenendo in questi giorni.  E niente abbracci nel luogo della "vittoria", strappata a suon di sacrifici, niente grido liberatorio in università, niente ritualità.

Sul finale della conversazione, uno di quei lampi rivelatori. Mi avvicino alla parete di una stanza e ripasso la data della mia laurea: 7 aprile di quei... due, tre anni fa.

Mi impressiona la coincidenza, eppure mi riporta anche molto, molto indietro: ovvero in un tempo di legami così differenti, dove ci si prendeva cura in tanti modi degli altri. E dove se uno nasceva rompiscatole tipo me lo era fino in fondo. Poi spiegherò perché. 


La sera prima, invece di studiare, ero a lavorare perché stavano affluendo i dati delle elezioni parlamentari del 1992. Quelle che hanno portato anche un caro e sfortunato amico (si dice galantuomo, mi rimprovera lui, come il tempo) a Roma, tra l'altro. Ad un tratto, dalla sala dove scorrevano i risultati, fui chiamata in segreteria per una telefonata.

Era la redazione, che mi riportava la strigliata del direttore Mino Durand: «Cosa? Marilena è ancora in Comune? Ma domani si laurea, quella disgraziata, ditele di tornare a casa». Questo è il volere (il) bene, che rifugge dallo spremere le persone.

Obbedii a rilento e il giorno dopo andai all'Università Cattolica,  con i miei genitori, perché avevo dissuaso tutti gli amici. Anzi, all'ultimo, la rompiballe chiede anche ai suoi di non entrare, perché era nervosa. Si infilò dentro solo un compagno di corso, fu accettata una studentessa che doveva laurearsi con una tesi in Sociologia della religione nei giorni a venire, quindi chiedeva di testare come funzionasse.

Insomma, la mia fu una laurea a distanza, in un certo senso, così come ho sempre detestato suonare in pubblico (e volevo entrare in un gruppo rock), gli esami preferivo gustarmeli in solitudine.

Poi esplose l'abbraccio, ci fermammo in un caffè con mamma e papà e li portai fuori a cena. Era tutto semplice, una tappa per cominciare qualcosa di nuovo. Me lo racconta anche questa fotografia, dove sembro lasciarmi alle spalle una vita per un'altra.

Oggi una laurea a distanza significa però che magari non sei bastardo come me e i tuoi genitori, i tuoi amici, possono comunque seguire. E che senti anche l'onere di attraversare un periodo drammatico con il fuoco di volerlo battere e consumare.

Non siamo mai distanti, mai vicini veramente, se non lo vogliamo. Ma possiamo sempre lasciarci alle spalle una vita per un'altra. Possiamo sempre cominciare qualcosa.

lunedì 6 aprile 2020

Il grido del dottore

In coda, o anche solo all'esterno dei negozi scopri l'imbarazzo dell'umanità. Il padre a volto scoperto con bimbo a fianco, che chiede al panettiere perché i guanti fuori:

- Signore, c'è l'ordinanza...

E lui arraffa i guanti e fugge.

Fuori dalla farmacia, qualcuno fa lo sbruffone, più o meno consapevolmente. Ma in coda, c'è anche un dottore che mi stava raccontando dei tormenti quotidiani. Al comportamento scorretto delle persone in fila, sbotta e scende dal marciapiede.

Ricorda tutti i colleghi morti e noi dovremmo pensare che si sta preoccupando per se stesso, se fossimo stolti abbastanza.

Invece, sento un solo grido: ho i miei pazienti da assistere!

Mi viene in mente una lettera, che - come mi ha indicato il mio collega - ha firme coraggiose e un nome assente, che mi ricorda la pienezza di piazza San Pietro con il percorso fiducioso di Papa Francesco.

Il grido del dottore, è quello che dovremmo lanciare tutti.

domenica 5 aprile 2020

La (ex) prima boccata d’aria fresca

Con uno sghignazzamento generale (così interpreto il vociare più vivace dei merli) cammino nella mia alba. Ieri per la prima volta ho dovuto rinunciare al sapore unico della prima boccata d’aria fresca.

Indossavo sempre la mascherina, tranne all’alba che è l’ora del distanziamento sociale per eccellenza. Al massimo vedevo la cagnolina che da sempre si strilla con la mia, quindi la lontananza è d’obbligo per non svegliare l’isolato (che parola sintomatica di questi tempi).

Oppure c’è il signore che fuma sul balcone e lui, non l’ho mai visto a distanza ravvicinata da quando si è trasferito lì. Lì, intendo nella casa e anche un po’ sul balcone, perché è il primo al quale ho augurato buon anno nella prima alba del 2020, tra sbuffi di sigaretta.

La prima boccata d’aria fresca è un test di vita straordinario, un bacio di libertà scambiato, e oggi mi pesa un po’ di più la rinuncia, perché mi sembra che la maschera abbia ancora il profumo di amuchina.

Pazienza, e voi merli sghignazzate pure a questi umani. Infatti uno viene da vicino a osservare, creatura minuscola e libera, due aggettivi che forse devono stare abbracciati.

Come se avessi voluto diventare John McEnroe

Ogni sera è una lotta per non immergermi in una tv, che da indifferente è diventata causa di ansia e confusione per me. Con diligenza mi do alla loro ricerca di film da mordicchiare, anche tardivamente, a parte il lunedì di Montalbano, che è una partita a sé.

Ma stasera mi hanno convocato Borg e McEnroe (quanta fatica nel non invertire l'ordine) e non ho potuto rifiutare. La lotta c'è stata, comunque: un po', perché non volevo rivedere gli istanti finali di quella partita, poi perché vacillo ogni volta che compare Gerulaitis: forse il mio vero preferito di tennisti rockstar, per la sua umanità disarmante.

Ogni incontro, persino un bis ti denuda con epifanie e io ho ripensato a come adorassi McEnroe. Quello in cui mi rispecchiavo, ribelle per definizione. Poi ho guardato dentro Borg, messo a nudo senza crudeltà in questa pellicola, specialmente nelle parole attribuite a Vitas.

Non è un ghiacciaio, ma un vulcano. Quello che tiene dentro, rovente e inespugnabile finché esplode. 

Ho sempre agito come se avessi voluto diventare McEnroe, fuoco e fiamme, anzi magari già mi illudevo di esserlo, così era più comodo occultare la mia identità: quella di un vulcano, che si è tenuto molto dentro, troppo a lungo.

Adesso ammiro John perché è stato un campione non solo nello sport. E guardo con tenerezza Borg. E ancora di più me stessa.

venerdì 3 aprile 2020

Un filo gelido per fingere

Indosso giacche troppo pesanti nelle rare e brevi uscire obbligatorie, rivelando il timore di una zampata d’aria traditrice e di un conseguente raffreddore che mi creerebbe disagio.

Dentro di me, sussurravo: tengo giacca e stivali, perché li voglio rinchiudere e liberarmi quando tutto sarà finito. Adesso capisco che stia diventando poco gestibile.

Ma nella solitudine dell’alba, con le speranze incontaminate, un filo gelido mi sorprende e tardo a chiudere la giacca per goderne.

Un filo gelido per fingere che siamo ancora in inverno e per credere che il meglio debba ancora venire.

giovedì 2 aprile 2020

Ognuno conosce qualcuno

Ognuno conosce qualcuno: questa frase, l'avevo già sentita.  In Israele, nel 2001, perché ognuno conosceva qualcuno che aveva perso un suo caro in un attentato.

E non metto muri e confini, perché una vita è una vita e basta. Accadeva per la violenza senza fine e perché è una terra piccola.

Solo che adesso la vedo stampata lì, sul New York Times, quella frase.

Everyone knows someone.

Non mi sembra più vera, perché ce l'avevo già impressa nel cuore, eppure mi trasmette la forza dello sguardo rivelatore di un bambino. Questo virus che attraversa tutte le vite, perché ognuno - anche colui che nella sua sfera più intima è scampato - conosce qualcuno che ne è ferito. È come se fossimo diventati una terra minuscola, un villaggio dove tutti siamo raccolti in attesa di un abbraccio che non può arrivare.

Troveremo un modo

Anche nello smartphone le foto si rifugiano in angoli velatissimi, per placare le emozioni. E magari splendono come Edimburgo in versione natalizia fino allo sfinimento.

Ma poi, ne trovi un'altra, di foto che racconta tutto di un weekend speciale perché così semplice. Silenziosa e familiare. E ti fa male al cuore.

Perché quando qualcuno se ne va, il primo dolore è non poterlo abbracciare. Né lui, né chi gli è stato vicino per tanti anni. E allora, quella foto, con tutti noi impegnati a conversare e cliccare, dice molto.

Troveremo un modo per comunicare, in due mondi, non troppo paralleli.

Troveremo un modo ancora per sorridere insieme.

Troveremo un modo per guardarci indietro senza permettere alle lacrime di pronunciare l'ultima parola.

Troveremo un modo per convivere con un futuro traballante e di andarcene, quando sarà il caso, ovvero quando non lo decidiamo noi.

Troveremo un modo di volerci sempre bene. Quello, l'abbiamo trovato già.


mercoledì 1 aprile 2020

La parola che ci dannerà

Ho pronunciato e ascoltato molte parole inutili, che rubano l’aria e poi ne riempiono il vuoto. Una musica fabbricata da uno strumento scordato, a cui ti abitui, finché non ti trovi nell’armonia del silenzio  mattutino.

Attorno alla grande aiuola osa sì e no dire mozziconi di frasi il merlo e il gatto improvvisa una gobba che si placa poi per pigrizia. La grande cornacchia sbadiglia da lontano e ciascuno sembra fare la propria parte.

Dentro questa sordina, penso alle nostre parole inutili e scelgo quella che ci dannerà.

Voi. Un muro impastato frettolosamente e stretto in tre lettere: voi che sbagliate, non capite, siete i colpevoli e gli scellerati.

Voi, la parola che ci dividerà e non farà mai cambiare niente.