Sono solita sognare tanto e ricordare troppo. Appunti di una sceneggiatrice mancata, dialoghi o sguardi fitti, a volte entrambe le cose.
Questa notte, avevo uno spazio angusto dove coricarmi, pochi centimetri e un gradone o un altare dietro a cui aggrapparmi: dove finiva il mio provvisorio spazio, di un certo pallore, c’era l’acqua. Ogni notte, una voce diceva, dormivo lì e quello spazio sembrava ritirarsi, sempre più. Accanto, in un’area più libera c’era un uomo in piedi, forse un pescatore.
Quando i miei pochi centimetri si sono ridotti ancora, io, sdraiata, ho chiesto aiuto perché neanche aggrapparmi all’altare o gradone poteva impedirmi di cadere, sotto gli occhi impotenti della mia cagnolina. Ma non udivo la mia voce, anche se provavo ad alzarla, figurarsi quel signore dallo sguardo impenetrabile rivolto al mare.
In qualche modo, per questa volta, non sono scivolata.
Ma ho pensato a quanti l’hanno fatto, anche questa notte, e hanno chiesto vanamente aiuto. E io, a guardare davanti a me, senza sentirli.
Scivolando senza voce, ogni volta un po’ di più.
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