Dal telefono compare un video, pochi secondi inviati a un amico pazzesco, che ha vegliato su di me nei giorni più difficili dello scorso anno.
Giorni, settimane, mesi. Mi tiene ancora d'occhio, e così faccio io perché una delle certezze che ho appreso dopo l'infortunio è che non esiste un successo acquisito. Che ogni progresso è da difendere, nell'oscurità e nella solitudine della propria camera.
Era un anno esatto fa e nel video gli mostravo come dopo diversi sforzi riuscissi a sollevare per qualche istante mano e braccio, a patto di restare sdraiata. Ricordo bene la frustrazione di non poter compiere quel gesto fino in fondo se non dopo mezz'ora di tentativi.
E vi era una frustrazione anche peggiore: una volta conquistato quel risultato, non era affatto un gradino da cui continuare la salita. Ripiombavo inesorabilmente a terra e dovevo esercitarmi un'altra mezz'ora prima di alzare il braccio per un poco.
Era una sensazione che mi scuoteva, perché mi sembrava di non imparare niente, almeno non stabilmente. In realtà, se il mio corpo soccombeva, la mia mente poteva assorbire un'utile lezione,
Non c'è progresso che tu non debba difendere, sempre. Non c'è traguardo, che ti permetta di riposare tracciando quell'amabile segno: fatto.
Non c'è persona che tu abbia conosciuto davvero e che non possa sorprenderti, anche terribilmente: tu per prima.
Guardare questo video dovrebbe confortarmi, un anno dopo almeno quell'interminabile esercizio non sembra servirmi più. Ma me lo ricordano una debolezza improvvisa, una difficoltà a muovermi, una ferita nell'anima inferta quando me n'ero appena curata una, mani tese ad afferrarmi per tirarmi in ragionamenti di cui non me ne frega più niente perché vedo il treno della vita procedere verso ben altri lidi.
Attraverso i vetri, tutte le cose ci faranno grandi cenni di addio.
Nessuna si offrirà per salire con noi avran tutte paura di tenerci compagnia.
Come scrive Madeleine Delbrêl, io già sento effimero molto, e non abbastanza. Persino quell'esercizio doloroso e testardo che mi ha permesso perlomeno di rialzare un braccio, adesso mi incute simpatia distaccata: eppure ho nitida in me la disperazione di quei giorni e quando non riesco a usarlo come devo, vacillo.
Ma tanto, devo ricominciare.
Nessuna cosa, nessuna persona sale sul treno con me. Mi accomodo e sciolgo il nastro dei pensieri, mentre ricomincio, ancora.