C'è un momento dell'incontro con i ragazzi dalla Galilea in Italia tanti anni fa, che è rimasto scolpito nella mia anima, un antidoto per me a questo periodo che cerca di risucchiare la speranza. Ogni spettacolo del Teatro Arcobaleno Beresheet LaShalom con Angelica è stato per me un rigenerarsi nella riflessione sulle differenze che uniscono e nella speranza concreta di pace. Ma anche il calcio scriveva analoga storia con Yehuda e i giovani.
Perché anche lo sport sa far crescere insieme, con la sua bellezza, i suoi sacrifici.
La fatica gioiosa di trovarsi per gli allenamenti, andando oltre ogni ostacolo, fisico e non solo, ci aveva conquistati tutti. Una sera, durante la tournée del teatro un giovane calciatore andò dall'allora presidente della Pro Patria Alberto Armiraglio stringendo la maglia che gli era stata donata. Aveva gli occhi lucidi e gli disse, riconoscente: «Quando verrai in Israele, devi dormire a casa mia».
Una maglia, delle scarpe, un tesoro di valore incredibile: l'emozione e la gratitudine appartenevano ai ragazzi ebrei, musulmani, cristiani.
Questo ricordo, stupendo come tutti quelli che riguardano la missione di pace - pace autentica, non quella che si esprime con gli slogan apparenti per un popolo, contro un altro - di Angelica e Yehuda, ha per me un sapore agrodolce oggi.
Non volevo credere ai miei occhi leggendo della petizione promossa da esponenti di un gruppo politico - e alcuni da me erano conosciuti e stimati - per sospendere gli atleti israeliani da tutte le competizioni internazionali.
Lo sport che unisce, lo sport strumento di pace? Dov'è finito?
La mia delusione è profonda. Ho anche firmato la petizione che si oppone a questa richiesta (QUI), ma soprattutto sono sconvolta e preoccupata, sempre di più.
Il mio dolore cresce, pensando a chi ha potuto gareggiare in una competizione internazionale - quella dallo spirito più elevato che unisce i popoli, 53 anni fa - e non c'è più: gli atleti israeliani, seviziati e uccisi alle Olimpiadi di Monaco.
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