Uno dei fatti curiosi che hanno caratterizzato gli ultimi sette anni della mia vita è l'improvviso interesse dei commensali attorno a me nei confronti di ciò che mangio.
Quando ero onnivora, non poteva fregare di meno a nessuno. Con l'eccezione di qualche amico che chiedeva di assaggiare o scambiare.
Da quando sono diventata vegetariana - o meglio ho scelto di avviare il percorso vegetariano perché ha richiesto e richiede continue nuove consapevolezze e conseguenti scelte - il mio piatto è diventato oggetto di conversazione e contendere. Spesso, in chi mi è più vicino e ciò mi arreca dolore.
Uno dei capolavori dello chef Leeman a Joia
Si va dagli sfottò alle critiche di chi mi accusa di seguire le mode, quando tra i maestri a cui via via ho guardato non rientrano soltanto personaggi di questi tempi, penso a un Leonardo da Vinci, per esempio. Atteggiamenti conditi da ostentare carne e pesce nei piatti dei critici in questione, che io cerco di ignorare anche perché la mia non è una scelta salutista, pur avendo denotato questo ulteriore risvolto.
In realtà, io ho l'istinto da vegetariano da sempre. Da quando ho riconosciuto l'identità del primo animale del piatto e mi hanno costretto a mangiarlo a casa. Persino all'asilo io che avevo fama di mansueta, ho combattuto contro la suora che mi costrinse a mangiare un pezzo di carne, tanto che per anni ho respinto pure il contorno di quel piatto: per fortuna, in famiglia non era molto amato e non se ne accorsero mai.
Ho pianto disperato, rifiutandomi di afferrare un fagiano quando mio padre ne vide uno, intontito, in montagna e mi chiese di correre a prenderlo.
No, perché poi tu lo mangi.
Mio padre, come sempre, sapeva già le cose in anticipo: sì, molto prima di me. Non mi ha graziata quando mi ero piccola, ma mi è parso di scorgere in lui una lenta, inesorabile resa. Con picchi di ostinazione - per il mio bene, ne era convinto - come quando teneva le anguille vive nel secchio. Una volta mi chiese di andare a controllare e trovai la bestiola che saltellava in cantina: altro rifiuto disperato, quando me la trovai morta nel piatto e lì i miei si impuntarono. Il risultato fu che la rigettai e per ironia della sorte, in via eccezionale l'avevano accompagnata con il contorno ripudiato all'asilo, per cui fu un disastro pluriannunciato.
Eppure ci ho messo una vita a diventare vegetariana e a compiere ulteriori scelte che definirebbero vegane: io ho una naturale allergia verso le definizioni. Se proprio ne devo trovare una, torno a "leonardiana" per pura vanità dai.
Ho mangiato di tutto e al pensiero avverto una fitta. Poi una serie di fattori mi hanno liberata e mi hann permesso di ritrovarmi. L'aver scritto un libro dove gli animali aiutavano la protagonista, come hanno sostenuto me, è stato un passo decisivo CHI HA BISOGNO DI WILLY. La contemporaneità di Expo mi ha dato una mano, anche per l'incontro con tante persone illuminate: uno su tutti, Elio Fiorucci.
Avevo già rifiutato di mangiare i cuccioli, poi ho smesso con i mammiferi e sono passata a lasciare in pace i poveri pesci, che fanno una fine anche più terribile degli altri. Per vivere, e bene, non mi sono necessari e non capisco dunque perché infliggere loro sofferenza in vita e in morte. Dal momento in cui ho lasciato crescere in me questa consapevolezza, del resto, è aumentato anche il dolore, cioè la sensibilità al loro. Un combustibile è la pornografia della morte nel cibo: non sopporto l'esibizione di animali uccisi (perché è così, bando all'ipocrisia) come se si fosse combattuto ad armi pari o per la propria sopravvivenza, a maggior ragione con pose derisorie. Proprio per questo è duro il percorso vegetariano, e oltre, perché ogni volta avverti un'ingiustizia in più nel nostro mangiare, vestire, calzare e ti senti profondamente impotente.
Puoi solo combattere nel tuo piatto e nel tuo stile di vita: una briciola, tutto ciò che puoi fare.
Ma ci provi e quando gli altri ti assaltano, deridono, improvvisamente interessati a ciò che mangi, potresti usare un vecchio slogan - che pur non ti è affatto simpatico - plasmandolo così: il piatto è mio.
Anzi, non lo è affatto. Perché ciò che mangiamo, beviamo, vestiamo, usiamo - uno dei termini tristi dell'umanità - viene dalla natura, da qualcosa che abbiamo avuto in prestito, ci è stato affidato.
Quindi, il piatto - non - è mio e lo difendo, con la stessa gioia che provo quando accarezzo un animale, di cui prima magari avevo persino paura: perché tutto cade con la consapevolezza, questo dono che si fa strada nelle anime giorno dopo giorno.