sabato 3 novembre 2018

Dov'è la Vittoria (il coraggio di Isonzofront)

Finisco questo libro, a ridosso di ciò che non finisce: la guerra. La Grande Guerra, quella di cui si celebra l’epilogo, ma cent’anni dopo mi sembra dispersa in mille rivoli.

L’Isonzo verde smeraldo, strappato in un rosso atroce: ovvero specchio di atrocità. A un mese dal mio viaggio a Oslavia, ho il cuore che scoppia di contrasti. E devo placarli, con i pensieri.

1 La gratitudine. A Klementina, che non incontrai in Friuli Venezia Giulia la prima volta, bensì in centro Italia, in un’altra terra ferita e fiera. Ed eccomi qui a Gorizia, due volte in tre mesi, e questa seconda volta mi porta le preziose indicazioni di Silvan Primosic. I suoi occhi mentre raccontano la storia frugando tra i monti e le loro cicatrici, poi mi sussurra: legga Isonzofront, è di una donna, sa? La prima donna reporter di guerra, Alice Schalek.

2 Il dovere.  Ed è un dovere a cui non mi sottraggo. In queste settimane l’ho preso, letto piano a piano e all’alba del 4 novembre lo termino.

Vittoria.
Adesso mi rimbomba in testa quel verso dell’inno di Mameli: dov’è la vittoria?
Grandi i nostri uomini (che emozione quando gli austriaci si emozionano a loro volta per il coraggio degli alpini), ma quelli che li fronteggiavano, cos’erano? 

Liberatori. Liberati. Tutto si mischia, quando leggi l’opera di una reporter che ha osato essere lì. Forse, di una donna reporter. Perché sfogliando dolorosamente le pagine di Alice Schalek io mi convinco di ciò che già mi avevano sussurrato gli incontri con i conflitti di oggi.
Se il mondo fosse delle donne (non proprietà ma responsabilità), la guerra si infrangerebbe contro se stessa.

3 L’impotenza. Quando si vive il dolore altrui, quando esso diventa improvvisamente il proprio, si coglie anche un aspetto insopportabile. L’impotenza di descriverlo, con la penna in mano, di gridare tutta l’assurdità, di essere un poeta, di scardinare la guerra con le parole.

Non accade solo con il dramma della guerra.

L’impotenza delle parole, mi sembra di viverla quasi quotidianamente, molto più banalmente.

Ma poi Alice insegna qualcos’altro  ancora: che comunque bisogna provarci. Con i propri, fragili mezzi. Con i mozziconi di parole che affiorano tra l’orrore.

4 L’umanità. E poi per chi stiamo combattendo? O meglio contro chi? Uomini contro uomini? Io so che il 4 novembre è l’anniversario della vittoria, ma vedo anche la sofferenza spalmata su entrambi, gli incerti fronti.


5 L’indifferenza. Che cosa ci frega? Che cosa ha ripetuto le guerre e ancora le farà ripetere?

Una delle caratteristiche curiose di questa guerra è che basta allontanarsi di dieci chilometri dalle prime linee per non vedere, né sentire più nulla della guerra.

E’ questo, che ci fotte. In ogni epoca. Non c’è  mai una guerra abbastanza vicina, e quando è troppo vicina, non hai tempo per urlare l’unica certezza: la guerra è una  follia non da fermare, neanche da iniziare.



Mi sento sempre più infelice. (Alice, prima reporter di guerra, Dio ti benedica).

Uno spazio morto è uno spazio dove si resta vivi

Da dove vengono fuori all’improvviso tutti questi eroi? Da noi come da parte del nemico?

Chi è coraggioso, è un amico.

Si usa quel che c’è per abbellire la vita. Fosse anche per poco.


Che poi, ancora una volta, un libro scolpito sulla vita mi indica un orizzonte. Eppure è la vita che mi conduce fin lì: Oslavia, la collina morta, oggi è collina di vita, profumi e progetti. Un secolo dopo, è Vita.

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