C'è stato un tempo in cui pensavo che i soli gatti che mi avrebbero salvato, erano rossi. Forse perché ero un po' rossa anch'io, le lentiggini fieramente a ricordarmelo.
Ero cresciuta tra mici tigrati e altri esaltati da un'accattivante unione di bianco e nero (no calcio, grazie). Finché da zia Angelica scoprii che i gatti potevano essere rossi. Io li chiamavo gatti pomodoro, mentre entravo nel suo regno di un freddo sano, non consumato da avidi caloriferi.
Scaldati quel che basta, senza ammalarti. I suoi occhi erano chiari e sinceri, come quelli della mia nonna che non mi ero mai goduta per la malattia. E lei rideva di un riso che allora mi veniva da definire furbo, ma oggi so essere saggio.
Perché la zia Angelica era una donna dolcisissima, capace di confezionarti meraviglie dal nulla con l'uncinetto, meglio ancora frasi sapienti con il suo intelletto.
Un giorno entrò suo nipote annunciandosi con il suo nome, Dante, e lei chiese: chi, Dante Alighieri?
Gli altri sorridevano, ma io conoscevo la verità. Zia Angelica era colta, la vera erede di sua madre. Lei leggeva tanto, tantissimo, e io rubavo qualche riga, mentre accendeva la stufa. Assorbivo ogni parola e mi inchinavo alla sua corte.
E che corte. Gatti rossi, impigriti dal sole e dalla sua tenerezza.
Così ancora oggi scrivo storie di gatti rossi. E sorrido pensando ai suoi begli occhi, immensi come la sua voglia di leggere e scoprire un'altra storia ancora. Magari come una di quelle che da piccola le leggeva sua madre.
La mia saggia bisnonna Serafina. Quanti segreti aveva lei, quasi quanto i gatti rossi.
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