Ho trascorso gli ultimi dieci anni senza l'orologio. Mi sentivo vagamente in colpa (ti pareva, sussurra la mia amica Arguta Paffuta, che finge di non notare la mia metamorfosi) pensando all'emozione del primo orologio, quello della cresima.
Mi ricordo ancora l'ingresso nel negozio con papà, l'ufficialità dell'evento e i brividi di orgoglio.
Nel giro di una quindicina d'anni tutto stava per cambiare. Poi sul mio polso gli orologi impazzivano, si sfilavano facilmente, insomma diventavano insopportabili.
Entrai nell'era dei cellulari che ringraziai per avermi sottratta all'obbligo di usarli: tanto l'ora, la trovavo dappertutto.
Finché ho capito che non era proprio così, che a volte arrivavo tardi per non offrire la brutta immagine di consultare il cellulare a caccia dell'ora esatta. E aspettando di restaurare un orologio a me caro, durante un raro tour dello shopping ne ho conquistato uno alla modica cifra di dieci euro.
Ero molto fiera della mia efficienza, ma ben presto mi sono dovuta ricredere. Perché c'è un altro problema.
Non lo consulto affatto. Spesso, ancora vago alla ricerca del display del cellulare, o accendo la tv, o ancora nei momenti disperati alzo lo sguardo per trovare un provvidenziale campanile.
Non mi ricordo di avere l'orologio e non lo uso, perché sono abituata a non averlo. Chiamiamola abitudine, forse persino esperienza. Ci vorrà un po' prima che io mi renda conto di avere l'ora a portata di sguardo, addosso a me.
Ma intanto, da filosofa, penso a tutto quello che mi toglie l'abitudine, senza che io me ne renda conto. A quanto abbiamo e non sfruttiamo, nel senso benevolo del termine.
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