E Nonostante la dedizione nel riporre in varchi lontani i ricordi accumulati come cronista, riaffiorano ancora troppo facilmente.
Che poi "troppo" è sbagliato. Ci vuole la penna magica (chi se ne frega se ora percuotiamo la tastiera di uno smartphone o di un pc) di un collega tra i miei miti a far sgorgare tutto da capo.
Quante tragedie ho dovuto attraversare, senza riuscire a fuggire. Raccoglievo testimonianze, dolore e fotografia, come ricorda magistralmente lui in tempi ben più difficili, scrivevo soffocando ogni tentazione di emozione mia. Ma una volta chiuso tutto, si rompeva un argine.
Due ricordi si impongono tra i numerosi infilati nella mia vita. La mamma di una bimba, scomparsa all'improvviso durante una gita: fui spedita a casa sua e per i primi, interminabili minuti le rimasi a fianco senza parlare. Quando entrambe riuscimmo a scambiarci mozziconi di frasi, le chiesi anche una foto della piccola, sì.
Ancora oggi, è la prima casa che mi viene in mente, quando penso ai tanti fatti riportati da cronista. Quando le passo davanti, avverto la stessa incrinatura nel cuore.
Ma c'è un'altra ferita ancora più insopportabile di altre. Quando fui mandata, forse andai persino io, a casa di un giovane che aveva perso la vita in un incidente.
C'era un particolare: quel giovane, lo conoscevo fin da bambina, e così la sua famiglia. Sua madre mi spalancò la porta e mi disse: che cara sei stata a venire qui. Io mi resi conto che parlava alla bambina e detestai essere giornalista. Mi sono seduta sul divano con loro e ho pianto.
Mezz'ora dopo, arrivò il fotografo del mio giornale e la mamma gli aprì. Allora, il suo sguardo si posò su di me: ah, sei anche giornalista. In quel momento, me lo ricordai anch'io. Scrissi un articolo che mi faceva male a ogni sillaba. Durai ancora qualche anno, poi abbandonai la nera.
Anche giornalista. Soprattutto persona. C'è un luogo in cui dobbiamo essere. Un modo in cui possiamo farlo. E un momento in cui andarcene.
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