Torno alla mia università, per un'intervista. Mi smarrisco un po', perché si apre una porta del bar che non conoscevo: è quella degli insegnanti, immagino, e quasi mi rammarico, perché nel locale ero abituata poco a entrare, più portata a scegliere spazi più lontani e quindi fragilmente trasgressivi.
Così piace vincere facile.
Mentre mi siedo, penso a un'amica. No, a un'Amica. Università, tempi cupi in cui dovevo correre avanti, perché già avevo in mente che cosa volevo fare. Vuoi vedere, che fu lì il grande inganno? Sarebbe stato piacevole, godersi l'università.
Il mio interlocutore mi rivolge complimenti: l'ho rilassato per il mio passo lento. E' che il ginocchio mi fa troppo male, ammetto. Ancora lungo la via avevo pensato: scrivo alla mia Amica, che verrò qui ma solo un blitz. Non posso fermarmi oltre l'intervista, devo correre ancora pur a passo lento. Poi penso che la deluderò: le scriverò un'altra volta, quando potrò sostare e godere il suo sguardo, in cui mi specchiavo.
Mi siedo con l'intervistato e non mi guardo attorno. Dieci minuti dopo, una donna mi avvicina: che ci fai qui? Si allontana subito con il suo splendido sorriso, che non conosce tempo di corsa.
Eppure la mia Amica non si accontenta. Quando mi riconnetto con il mondo, mi accorgo che mi aveva mandato un whatsapp: c'è una foto mia e un messaggio "che ci fai nel bar dell'università?".
Vivo di corsa, Amica. E mi fermerò presto, prestissimo.
Anzi, quasi quasi grazie a te, mi sono già fermata già.
Come non addolorare un'amica (ovvero pessimi social times).
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