La mia maestra si chiama Licia. Può sembrare l’inizio del diario di una bambina delle elementari e forse è proprio così.
La mia maestra era entrata in punta di piedi nella mia vita, al secondo anno addirittura, perché prima era in maternità. Io mi ero affezionata alla mia prima insegnante e quindi ero un po’ timorosa.
Se oggi scrivo o ci provo, è perché lei c’è stata, prima ancora di quella macchina da scrivere che mi aiutò a plasmare la mia libertà.
Scrivere in ordine, non era la mia specialità. Ma provare a essere libera, sì, mi piaceva.
La mia maestra se n’è andata in punta di piedi: l’ho scoperto leggendo un manifesto nel buio del viale.
Ma forse qualcuno me l’aveva preannunciato.
Un mio compagno più grande, che tutti pensavano sarebbe rimasto bambino. Prima che ci fossero programmi o insegnanti di sostegno, lui entrò nella nostra classe. C’erano dei genitori poco convinti - mi ricordò un’amica, episodio citato in questi cassetti -, ma la mia maestra replicò con cortese fermezza: sono i miei alunni che devono decidere.
E noi alla prospettiva di accogliere un nuovo compagno alzammo tutti la mano. Solo più tardi qualcuno avrebbe capito che si trattava della nostra prima votazione.
Non l’avevo visto più per quarant’anni, se non alla finestra, ma settimana scorsa l’ho incontrato sotto casa sua. Il suo sorriso, oscurava ogni ruga, e gli ho dato una carezza, come fossimo ancora bimbi.
Mi stava dicendo qualcosa, con quegli occhi.
Che la nostra maestra sarebbe andata via, in punta di piedi.
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