Ci ho messo, credo, una trentina d'anni a parlare con la professoressa di lettere. Quella delle medie, dolce e impeccabile, attenta a trasmetterci regole e libertà. Di quei tre anni ricordo più l'atteggiamento gentile, la voce precisa e lo sguardo che ci seguiva con costanza. Come un sottofondo, su cui stacco pochi episodi.
Uno sì. Fu quando morì John Lennon. Lei indagò subito su ciò che provassimo, anche se eravamo forse troppo ragazzini per capire ancora. Nel giro di pochi anni ciascuno di noi avrebbe formulato un percorso diverso con questo artista, ma allora troppi di noi erano ancora distanti. Ci sembrava qualcosa di orribile, ovviamente, ma di lui sapevamo troppo poco. Lei era preoccupata per sua figlia, quando il telegiornale annunciò la notizia, ma mi sembra di sentire la sua voce spiegare che la ragazza continuò a mangiare, quasi in modo compulsivo, caramelle o noccioline, non rammento questo. E scorse il dolore in questo gesto, ma per fortuna senza isterismi.
Forse è uno strano ricordo, e chiedo scusa. Come chiedo scusa di averle rivolto la parola solo poche sere fa, incrociandola a una festa. Quando la vedo, è la stessa prof di trent'anni fa (più della famosa prof di francese) e quindi io mi ritrovo bambina. Ripenso ai 25 anni di scrittura e medito: avrò fatto decentemente? Meriterò segni rossi? E soprattutto, scrivo per il Bene?
Domande lievi, eh, mi sussurra Arguta Paffuta. Che mi ha quasi spinto addosso alla prof: buona sera, tutto bene? Stavo dicendo al maestro che ero una sua alunna.
Suona già malissimo, ammettiamolo.
- Come si chiama?
Pronuncio il mio nome con la voce di un'adolescente e lei si illumina: Ah sì, Marilena, la ricordo a scuola, lei era... Fa la giornalista.
Ho avuto molto coraggio, ma prima di prendermi il voto il nostro dialogo è interrotto. Come mi ha definito, con un gesto, prima che con la parola, è bellissimo. E vado via, pensando che bisogna sempre osare un po'. Altrimenti si resta ragazzini, ma non di spirito.
Sono certa che John Lennon ci darebbe ragione.
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