Sono volati 25 anni, anche se non posso nasconderne il peso. Entro nella prima redazione della mia vita, con una lettera incerta e un'esperienza milanese che poco si sposa con il quotidiano.
Incontro il mio primo capo. Una persona scrupolosa, innamorata della storia, della famiglia, persino di questa folle umanità. Non conosco, non abbastanza, le sue ferite: sono troppo giovane e irresponsabile. Lo seguo, scalpito, lo capisco a poco a poco e mai abbastanza.
Non riesco ad acquisire la scorza che lui auspicava, non so se davvero.
Poi va in pensione e il mondo professionale è così diverso, senza di lui. Rare le luci. Un giorno, mi chiama e mi chiede di leggere un suo manoscritto. Dattiloscritto. Mi stupisce, mi sconvolge che lo chieda alla sua alunna. Forse, solo in quel momento sento Firenze sotto la mia pelle, ma non so se gliel'ho trasmesso abbastanza.
È ancora vicino, lo vedo, ci parliamo, prima di una nuova sofferenza, il Parkinson bastardo. Lo scorgo spesso mentre spinge la carrozzina con la nipotina.
Dopo tanti anni, che sono così pochi, apprendo che la nipote si sta laureando. Con una tesi sul bastardo Parkinson.
Il signor Gianni (non riuscirò mai a chiamarlo in modo differente da quel primo giorno) è andato avanti, come dicono gli alpini, ma io lo vedo sempre. Nelle sue delicate liriche, nel tracciare una notizia senza schiavitù, nel non alzare la voce se non per l'ultima vigliaccata subìta dalla nostra Pro Patria, nello scrupolo che riguarda la stesura di un'apertura di giornale o di una breve.
Il mio capo e la laurea di una piccola ormai adulta. Che sa che il Parkinson, come la falsità, non potrà mai vincere davvero.
Brava Maddalena.
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