Lentamente, questa persona mi dice perché mi ha cercata. Prima si premura di chiedere come sto e cosa faccio. Una parte di sé si meraviglia anche che io la riconosca subito, ma io mi ribello: con altri amici sognavamo di cambiare il mondo, anche con i nostri errori e ancor più provando a perdonarli. Come posso scordare?
Poi mi spiega la ragione della telefonata, ciò che gli è successo, su cui chiede un consiglio.
Qualcosa di così terribile che non riesco a capire fino in fondo. A sopportare, perché già ho visto padri, figli, mogli colpiti così.
E alla fine una volta ascoltato lui, parlo parlo, senza dire niente. Più le riverso più sono povera di parole.
Ci vogliono ore prima che io mi renda conto di ciò che ho sentito. Forse una scena alla TV di uno spettacolo che mi riporta ancora più indietro, bambina. O forse il silenzio che infine scende in casa.
Le parole cadono a terra, stanche, fiaccate da questo ritorno di inverno. E faccio finalmente ciò che dovevo: piango, senza ombra di vergogna, aspettando che in quelle lacrime possa ritrovarsi una preghiera.
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