Nel raggio di duecento metri, quei duecento metri che sono stati rilevanti nella non tanto precedente vita di lockdown, ho trovato due ombrelli abbandonati. Uno forse dimenticato e appoggiato a un albero. Voglio pensare smarrito e da qualcuno posato sotto un (altro) riparo. L’altro platealmente scassato e agganciato a un cestino, sotto la pioggia. Gli ombrelli da bambina, me li ricordo: il mio e quello degli altri. Mi sovviene persino all’improvviso il grande ombrello del nonno, nero come la sua borsa della spesa, la “gaetana”. Ripercorro anche lo stupore della bellezza dei tanti protagonisti del museo dell’ombrello di Gignese, che sfioro nel mio romanzo “Chi ha bisogno di Willy”.
Ad un tratto, sono stati facili da acquistare e da buttare via. Dev’essere stato triste il momento in cui non li si riparava più.
Noi cercando un riparo sotto la pioggia della vita, senza accorgerci quanto facilmente ne consumiamo, ne buttiamo via.
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