In questi giorni così dolorosi, i tempi di pendolare si riaffacciano anche in modo strano. Ultimamente salgo, salivo in treno con la serenità di chi lascia le code lungo l'asfalto per essere più libera anche solo di pensare.
Ma non può più essere così, dopo ciò che è successo con l'incidente.
Penso e ripenso, appunto, a quando ogni giorno prendevo il treno, per andare a studiare. E l'insensatezza del dolore è tale che una memoria mi colpisce, ossessiva: quando mi affidavo alla prima corsa, penso fosse alle 6.30 o giù di lì, per arrivare in tempo al corso di Logica.
Devo rendere omaggio peraltro alla mia personale insensatezza. Ero arrivata puntualissima, sfidando viaggi, trasbordi difficili e inverni testardi, a ogni lezione; alla fine di quell'anno complesso ho deciso che non mi andava di sostenerlo. Paradossalmente mi è rimasto dentro più di altri: ho adottato anche diversi simboli per la mia personale stenografia.
Ma oggi neanche importa quel mio rapporto complicato con la Logica. Rivivo ogni singolo viaggio, scomodo, caldissimo, gelido, rumoroso, silenzioso di stanchezza. E me lo sento ancora addosso.
Ci affidiamo a qualcuno per fare qualcosa di così naturale e doveroso, come studiare o lavorare. Ci affidiamo sempre, per vivere. E paghiamo per ciò che decide il destino o chi quel destino può cercare di governarlo.
Il treno oltre la logica, come ogni istante, passaggio, situazione della vita.
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