Aver contraddetto il chitarrista Mick Mars sul disco migliore della storia dei Motley Crue non mi ha solo dato soddisfazione. Mi ha riportato a un momento di vera viltà. Perché noi rocker o presunti tale, diciamolo, a volte pecchiamo di una certa codardia, quando riponiamo gli abiti di pelle da eroe.
Erano gli anni Ottanta, andavo all'asilo (e via dai piedi, Arguta, tu c'eri già, fatti tuoi) e dei Motley avevo in mano "theatre of pain"' indecisa se cedere a ulteriori acquisti. Mia zia a Natale mi regalò coraggiosamente "Shout at the devil" rimarcando la vergogna, perché dentro i quattro erano nudi. Informazione che mi fece scartare rapidamente - sapere come sono curiosi i bambini - ma che si rivelò infondata.
Eh dai, la rimproverai bonariamente. E decisi che avrei preso anche "Too fast for love" che giudico attualmente (ovvero questa settimana prima di cambiare idea) il migliore album dei ragazzacci. Solo che un'occhiata veloce, troppo veloce, a un giornale mi fece sobbalzare. La copertina era effettivamente imbarazzante, con un primo piano del cantante, piuttosto parziale, in pantaloni di pelle e una mano in posizione delicata.
Decisi che non potevo acquistarlo io con la mia faccina d'angelo, e chiesi a mia mamma se andava in centro. Lei accettò, ma non mi perdonò. E dire che avevo visto male, e la mano era lì, tutta innocente all'altezza della coscia.
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