domenica 3 giugno 2012

Giobbe solo, e non solo


Viaggiare nelle sofferenze di Giobbe mi imprime spesso un senso di smarrimento e aspetto con ansia che si instauri il suo dialogo con Dio. Anche se non posso fingere che le risposte mi diano completa serenità. Né il finale. Che cosa conta avere tutto e di più? Non saranno 100 figli a compensare quelli che hai perso, il volto e l’anima di ciascuno di loro una singolarità che non può essere sostituita, ad esempio.

Elie Wiesel, nelle sue riflessioni sul Talmud, mi apre un’altra prospettiva. Una delle lezioni da questa storia è la solitudine. Anche quando si è circondati da persone care. Ripenso alle parole della moglie, ma soprattutto degli amici accorsi ufficialmente a consolare. Giobbe – scrive Wiesel  ha imparato che viveva in un mondo freddo e cinico, un mondo privo di veri amici.

E’ crudele, questa visione, forse ingiusta, ma ha una sua ragione profonda. In fin dei conti, ciascuno di noi indossa a turno i panni di Giobbe e i panni degli amici. A volte sembriamo accorrere per consolare e invece peggioriamo la situazione, anche in buona fede, magari sospinti dalle nostre pseudocertezze.

Giobbe è solo, insiste Wiesel, e la sua storia denuncia la nostra ipocrisia. Mi pare come un sussurro la declinazione, l’estensione d’amore di questo ragionamento: la solitudine di Dio è pari a quella di Giobbe.

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