Viaggiare nelle sofferenze di Giobbe mi imprime spesso un
senso di smarrimento e aspetto con ansia che si instauri il suo dialogo con
Dio. Anche se non posso fingere che le risposte mi diano completa serenità. Né
il finale. Che cosa conta avere tutto e di più? Non saranno 100 figli a
compensare quelli che hai perso, il volto e l’anima di ciascuno di loro una
singolarità che non può essere sostituita, ad esempio.
Elie Wiesel, nelle sue riflessioni sul Talmud, mi apre
un’altra prospettiva. Una delle lezioni da questa storia è la solitudine. Anche
quando si è circondati da persone care. Ripenso alle parole della moglie, ma
soprattutto degli amici accorsi ufficialmente a consolare. Giobbe – scrive
Wiesel ha imparato che viveva in un
mondo freddo e cinico, un mondo privo di veri amici.
E’ crudele, questa visione, forse ingiusta, ma ha una sua
ragione profonda. In fin dei conti, ciascuno di noi indossa a turno i panni di
Giobbe e i panni degli amici. A volte sembriamo accorrere per consolare e
invece peggioriamo la situazione, anche in buona fede, magari sospinti dalle
nostre pseudocertezze.
Giobbe è solo, insiste Wiesel, e la sua storia denuncia la
nostra ipocrisia. Mi pare come un sussurro la declinazione, l’estensione
d’amore di questo ragionamento: la solitudine di Dio è pari a quella di Giobbe.
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