Spunta un altro gioco, in tutta la sua serietà. Infilato in un cassetto, i colori sparpagliati da una scossa.
Shanghai. Il mio momento preferito, controtendenza. Forse perché già i requisiti di gioco mi mettevano fuori concorso, a cominciare dalla pazienza.
Io adoravo stringere forte i bastoncini, quasi stritolarli tutti insieme. Sentire la forza e un significato che li avvolgeva. Poi lasciarli cadere e affidarli all’apparente caso. In quegli istanti, c’era tutta la potenza della metafora di vita, che lo cogliessi o no.
Sì, il gioco prevedeva di raccoglierli, uno ad uno, preservando l’immobilità degli altri fino al loro turno, ma dentro di me rimaneva il desiderio ancora di stringerli insieme e ricordarne l’originario significato. Quello afferrato e smarrito per un istante, dopo di che il gioco si colorava di umanità e nostalgia.
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