Finisco questo libro, a ridosso di ciò
che non finisce: la guerra. La Grande Guerra, quella di cui si celebra l’epilogo,
ma cent’anni dopo mi sembra dispersa in mille rivoli.
L’Isonzo verde smeraldo,
strappato in un rosso atroce: ovvero specchio di atrocità. A un mese dal mio
viaggio a Oslavia, ho il cuore che scoppia di contrasti. E devo placarli, con i
pensieri.
1 La gratitudine. A
Klementina, che non incontrai in Friuli Venezia Giulia la prima volta, bensì in
centro Italia, in un’altra terra ferita e fiera. Ed eccomi qui a Gorizia, due
volte in tre mesi, e questa seconda volta mi porta le preziose indicazioni di
Silvan Primosic. I suoi occhi mentre raccontano la storia frugando tra i monti
e le loro cicatrici, poi mi sussurra: legga Isonzofront, è di una donna, sa? La
prima donna reporter di guerra, Alice Schalek.
2 Il dovere. Ed è un dovere a cui non mi sottraggo. In
queste settimane l’ho preso, letto piano a piano e all’alba del 4 novembre lo
termino.
Vittoria.
Adesso mi rimbomba in testa
quel verso dell’inno di Mameli: dov’è la vittoria?
Grandi i nostri uomini (che emozione quando gli austriaci si emozionano a loro volta per il coraggio degli alpini), ma
quelli che li fronteggiavano, cos’erano?
Liberatori. Liberati. Tutto si
mischia, quando leggi l’opera di una reporter che ha osato essere lì. Forse, di
una donna reporter. Perché sfogliando dolorosamente le pagine di Alice Schalek
io mi convinco di ciò che già mi avevano sussurrato gli incontri con i
conflitti di oggi.
Se il mondo fosse delle
donne (non proprietà ma responsabilità), la guerra si infrangerebbe contro se stessa.
3 L’impotenza. Quando si vive
il dolore altrui, quando esso diventa improvvisamente il proprio, si coglie
anche un aspetto insopportabile. L’impotenza di descriverlo, con la penna in
mano, di gridare tutta l’assurdità, di essere un poeta, di scardinare la guerra
con le parole.
Non accade solo con il dramma
della guerra.
L’impotenza delle parole, mi
sembra di viverla quasi quotidianamente, molto più banalmente.
Ma poi Alice insegna
qualcos’altro ancora: che comunque
bisogna provarci. Con i propri, fragili mezzi. Con i mozziconi di parole che
affiorano tra l’orrore.
4 L’umanità. E poi per chi
stiamo combattendo? O meglio contro chi? Uomini contro uomini? Io so che il 4
novembre è l’anniversario della vittoria, ma vedo anche la sofferenza spalmata
su entrambi, gli incerti fronti.
5 L’indifferenza. Che cosa ci
frega? Che cosa ha ripetuto le guerre e ancora le farà ripetere?
Una delle caratteristiche
curiose di questa guerra è che basta allontanarsi di dieci chilometri dalle
prime linee per non vedere, né sentire più nulla della guerra.
E’ questo, che ci fotte. In
ogni epoca. Non c’è mai una guerra
abbastanza vicina, e quando è troppo vicina, non hai tempo per urlare l’unica
certezza: la guerra è una follia non da
fermare, neanche da iniziare.
Mi sento sempre più infelice. (Alice, prima reporter di guerra, Dio ti benedica).
Uno spazio morto è uno spazio dove si resta vivi
Da dove vengono fuori all’improvviso tutti questi
eroi? Da noi come da parte del nemico?
Chi è coraggioso, è un amico.
Si usa quel che c’è per abbellire la vita. Fosse anche
per poco.
Che poi, ancora una volta, un
libro scolpito sulla vita mi indica un orizzonte. Eppure è la vita che mi
conduce fin lì: Oslavia, la collina morta, oggi è collina di vita, profumi e
progetti. Un secolo dopo, è Vita.