Il vuoto insegue la città e le riempie di significati: alcuni dolorosi come la carta vetrata, altri si posano come carezze di conforto.
Dopo tanto penare e pensare sul mio Paese, mi avventuro fuori, anche verso i sogni tramontati. Perché New York era il mio sogno arrogante da bambina, arrampicarmi su un grattacielo e fregarmene delle vertigini della vita. Invece, il primo ricordo che ne ho, è l'odore: mi ricordo un aroma dolciastro che mi inseguì nelle prime ore e che poi se ne andò o cedetti all'abitudine.
Nei pochi viaggi lì, mi ricordo un albergo che apriva sguardi e cuore su uno slargo impensabile. Le altre volte, avevo avuto come visuale il palazzo a fianco, roba da soffocare; invece lì c'era una libertà di vagare irresistibile.
La notte, cadevo vittima di quel vuoto, perché in quella zona anche le auto placavano la loro corsa menefreghista e al limite sentivi le sirene, come in una canzone dei Motley Crue. Io, dovevo assolutamente tenere le tende, abbarbicate ai muri, spogliare le finestre del loro pudore e implorare me stessa di non dormire. Almeno, avere la certezza che in qualsiasi momento io avessi aperto gli occhi, avrei avuto lo sguardo senza barriere.
Quel vuoto così diverso da quello che ci descrivono ora. Era un vuoto innamorato della vita. Adesso le fosse comuni sono un pugno allo stomaco, come le bare di Bergamo sui camion militari.
Era già ferita, New York, quando la incontrai. Eppure la luce dell'alba arrivava, sfrontata, e reclamava la sua parte di attenzione.
Adesso, lo sguardo si sofferma sulla notte ma non accetta di tirare le tende. Metti che l'aurora voglia entrare, ancora.
Nessun commento:
Posta un commento